«Al fuoco, al fuoco!»
Ciro
avanzava armato di rastrello e di badile, come se dovesse affrontare chissà qual tenzone.
Le sue pupille dilatate, nel crepuscolo di quella sera di febbraio, tradivano tutta l’ansia che lo divorava.
Era un ragazzetto minuto: una testa di riccioli biondi, impiantata su di un tronco mingherlino che contrastava con le lunghe braccia ciondolanti su due gambe da trampoliere.
Il timore degli incendi era ormai entrato a far parte delle paure che ognuno si portava dentro fin da bambino.
Non c’era inverno
in cui le montagne non venissero solcate da una rossa striscia di fuoco che nel buio della sera si scorgeva da lontano come un sinistro presagio di rovina.
Se poi il vento ci metteva del suo, il compito dei volontari, chiamati a raccolta dalle campane a martello, si faceva assai arduo.
In tal caso era molto difficile appiccare il controfuoco che doveva ricongiungersi sull’opposto versante all’incendio principale.
Solo quando la neve, specie quella caduta nel mese di dicembre, ricopriva con una compatta coltre la superficie dei boschi, si potevano dormire sonni tranquilli.
Del resto lo diceva anche il proverbio: «La nef dicembrina per tri mes la se sampigna» che, al di fuori del significato letterale del vernacolo lombardo, vuol dire che la si calpesterà per lungo tempo.
Ma chi erano gli incendiari di turno?
Inguaribili piromani o distratti fumatori di passaggio?
Tutta colpa del treno, diceva la gente alla ricerca di un responsabile per placare la propria inquietudine.
Sì proprio la locomotiva a vapore che attraversava sbuffando la fascia più bassa, al limitare dei boschi di castagno.
Le scintille, generate dalla combustione del carbone, come da un cratere di un piccolo vulcano vagante, cadendo ai margini dei binari, attizzavano le foglie secche e innescavano una reazione a catena.
Ma altrettanto non si poteva dire degli incendi che avevano distrutto le stalle a monte in quel di Agra.
Per parecchi anni, infatti, si era consumato un funesto rituale che gettava nella disperazione i pochi contadini rimasti in paese a mandare avanti un’attività tramandata di padre in figlio.
A scadenze imprevedibili, la massa di fieno,
ammonticchiata nel cascinale soprastante il rifugio degli animali, andava in fumo e spesso le povere bestie non trovavano scampo.
Allora i disperati muggiti delle mucche e gli strazianti belati di pecore e capre rimaste prigioniere diffondevano un sinistro peana di morte che faceva accapponare la pelle. Qui le ragioni di un tale scempio erano ben altre.
Morti i vecchi, i giovani lasciavano le loro abitazioni per una casa più dignitosa in città, ma soprattutto più vicina al luogo di lavoro.
A molti non sembrava vero di poter vendere a prezzi da capogiro anche dei miseri tuguri ritenuti fino ad allora di scarso valore commerciale.
I nuovi venuti dalle città e dal suo hinterland cercavano, infatti, luoghi ameni dove trascorrere le vacanze, possibilmente con vista lago.
Mai però si sarebbero adattati a sopportare l’olezzo puzzolente del letame e il fetore delle stalle.
Fu così che una mano,
rimasta per sempre ignota, misteriosamente, con pervicace determinazione, procedette ad una sistematica eliminazione delle stalle e degli animali.
Una sorta di offerta sacrificale immolata sull’altare di un falso progresso.
Dunque Ciro si era avviato a grandi passi verso il bosco.
In lontananza si scorgevano, gli alberi, schierati l’uno accanto all’altro come un plotone in pieno assetto di guerra; dietro un intenso bagliore rossastro che andava via via crescendo e sembrava foriero di un incendio di grandi proporzioni.
Rinforzi
Al suo richiamo, erano accorsi anche l’Albino e l’Alfredo, tutti muniti dei ferri del mestiere, per giungere in tempo utile ad arginare la collera di quel fuoco nefasto.
Il cielo era terso e già si intravvedevano le prime stelle.
Dalla sommità del monte spirava una brezza leggera e pungente che pareva volesse dar man forte alle fiamme in apparente risalita lungo i suoi fianchi.
Ciro arrancava davanti a tutti, a testa bassa, attento a non mettere un piede in fallo in quell’intrico di arbusti che si opponevano al suo passaggio.
Giunto in una radura, si fermò e dietro di lui gli altri, come per prendere fiato.
Il chiarore s’era fatto più nitido, un po’ diverso dai segni inequivocabili di un incendio incombente.
Poi improvvisamente uno squarcio sfolgorante e la sommità di un’enorme luna piena che spuntava dietro il profilo della montagna, divenendo gradualmente sempre più luminosa.
Mortificato, Ciro, seduto per terra, con la testa tra le mani, non osava guardare in faccia i suoi compagni d’avventura.
Sarebbe voluto sprofondare per togliersi d’imbarazzo.
Le battute scherzose dell’Albino e dell’Alfredo, però, come una doccia fredda, lo costrinsero ad abbozzare un forzato sorriso.
I due, improvvisando una danza sgangherata appoggiandosi ai loro rastrelli, menavano solenni fendenti sulle spalle del ragazzo e l’Albino, il più spiritoso, lo rincuorava dicendo: “Non te la prendere, amico, la luna è dispettosa e pazzerella e questa sera ha voluto giocarti un brutto tiro.
Non è forse vero che quando uno è un po’ scentrato si dice che è lunatico?
Meglio così, alzati e torniamo a casa: questa sera ci giocheremo la consueta partita a scopone scientifico, in barba alla luna piena!”