STORIA DI SBERLOTTI
Sberlotti: chiamerò così l’alunno protagonista di questa storia.
Sberlotti, dunque, entrando a scuola al mattino, non aveva certamente l’abitudine di tenere le mani in tasca.
Si divertiva, infatti, ad accarezzare, talvolta con la riga, talora con la squadra e, quando pioveva, con l’ombrello, la testa dei suoi compagni.
Altre volte le sue mani, simili ad un batticarne, tamburellavano sulla schiena dei compagni senza andare tanto per il sottile.
Un giorno Camillo Pigliatutto, durante una consueta aggressione, uscì pesto come un pugile dopo un match sfortunato.
Qualcuno ebbe l’ardire di commentare che così conciato non avrebbe avuto bisogno di mettersi in maschera a Carnevale.
Salendo le scale, Sberlotti era come un bulldozer: spingeva, spingeva, fino a quando qualche compagna più fragilina non finiva a terra travolta dalla calca.
In classe Sberlotti si era scelto il ruolo di cacciatore di teste: con una cerbottana, mentre l’insegnante scriveva alla lavagna, lanciava le sue frecce, ora all’uno ora all’altro, senza risparmiare neppure gli occhi.
Non parliamo del suo banco e della sua sedia: qui Sberlotti aveva rivelato la sua vera vocazione di intagliatore e di pittore.
Peccato che i suoi capolavori fossero un po’ miseri: parole innominabili, invettive contro i compagni e i professori, qualche rara frase amorosa, infarcita di porcherie a buon mercato.
Loquace come nessun altro, durante le spiegazioni degli insegnanti, ammutoliva come un pesce quand’era interrogato.
Impreparato com’era, non riusciva neppure a captare i suggerimenti dei compagni e, quelle rare volte che apriva bocca, suscitava l’ilarità generale.
Il diario per lui era diventato un porta rifiuti dove si poteva trovare di tutto: dagli slogan inneggianti alla squadra del cuore, ai messaggi alle amiche più vanesie, tranne l’indicazione dei compiti e delle lezioni.
Non mancavano poi i soliti adesivi dei giocatori più famosi, delle moto più potenti e veloci e chi più ne ha più ne metta.
Lascio a voi immaginare come potesse fare ad organizzare il suo studio in queste condizioni.
Mentre i compagni diventavano sempre più in gamba, Sberlotti faceva il gambero: camminava a ritroso e sfogava la sua rabbia nel solito modo, l’unico che conoscesse: menando a più non posso.
Così facendo si sentiva temuto per la forza dei suoi muscoli, ma, ahimè, non amato, anzi sempre più detestato.
Un giorno, un brutto giorno, in un ennesimo incontro di box organizzato durante la ricreazione, Sberlotti sferrò un pugno in un occhio a Giannino Mingherletti che per poco non svenne.
Il ragazzo fu trasportato d’urgenza all’ospedale e dovette rimanervi per più di un mese.
A nulla valsero la sospensione, i rimproveri e la denuncia dei genitori di Giannino.
Sberlotti rimase chiuso in un mutismo impenetrabile, senza dar segni evidenti di ravvedimento.
Lo stillicidio a cui sottoponeva ogni giorno i compagni aveva creato il vuoto attorno a lui, però, tutto sommato, gli bastava essere considerato il più forte.
Ma anche il suo ultimo ancoraggio stava per cedere: i compagni, stanchi delle sue continue azioni di guerra, si coalizzarono contro di lui e, all’uscita di scuola, lo attesero in un luogo appartato.
Ad un segnale convenuto, gli piombarono addosso e, prima ancora che potesse riaversi dalla sorpresa, lo conciarono per le feste.
Sberlotti non ebbe neppure il coraggio di piangere: andò a casa imbronciato e si chiuse in camera, rifiutando di fornire alla mamma qualsiasi spiegazione.
Disteso sul suo letto, mentre guardava il soffitto costellato di stelle che si irradiavano dai suoi occhi violacei, Sberlotti sentì dentro, in fondo all’anima, un’angoscia che saliva su, su fino a chiudergli la gola.
E le lacrime , a lungo represse, cominciarono a scendere copiose dai suoi occhi. In quel momento Sberlotti però stava rinascendo a vita nuova.
Benediceva quella lezione salutare che aveva provocato lui stesso col suo comportamento.
Nella penombra della sua camera, vedeva finalmente chiaro: in tanti anni di scuola non era stato capace di conquistarsi un amico: ora bisognava ricominciare da capo.
La storia non è finita.
Racconterete voi stessi, facendo appello alla vostra fantasia ed alla vostra esperienza, come Sberlotti riuscì a diventare, nel giro di pochi giorni, il compagno più amato, l’alunno più diligente, il figlio più esemplare.