Il fantasma

“Ma fammi il santo piacere!”
“Ti dico che è così, non sarò mica scemo!”
In quanto a quello, Ernesto nutriva qualche dubbio non infondato.
“Su, racconta, senza tanti fronzoli!”
“In verità…”
“Dai vieni al sodo!”
“La cosa potrebbe essere poco credibile, ma ti giuro sulla testa dei miei figli…”
Anche la testa di quei due zucconi, dura come la roccia, non era certo un attestato di garanzia
“Mi avevano appena scopato fuori dall’osteria: saranno state sì e no le undici o le undici e un quarto, quando si è aperta la porta di casa della Sofia ed ho visto uscire proprio lui in persona!”
“Ma per l’amor di Dio, non mi vorrai far credere di aver avuto una visione, Con quel po’ po’ di vino che avevi in corpo, chissà quanti fantasmi avrai incontrato, prima di fiondarti a casa!”
“Beh, se non mi credi, è inutile continuare!”
Ernesto non si voleva comunque perdere una storia intrigante, non foss’altro che per poterla raccontare agli amici e farci sopra delle grasse risate il giorno dopo.
 D’altra parte qualcosa doveva pur aver visto quella spugna incallita d’un Berto.
 Di difetti ne aveva una caterva, ma bisogna pur dirlo; non era solito raccontare delle balle.
“Ero sì un po’ intronato, non dico di no, ma appena mi sono catapultato sulla strada, un manrovescio di tramontana mi ha subito raddrizzato le orecchie.
 Camminando a tentoni sulla neve fresca, mi sono subito sentito come un galletto di prima mattina.”
“E allora?” “Allora ho spalancato per bene le pupille come un gatto randagio e, a debita distanza, l’ho seguito.
 Era proprio lui ti dico: l’ho riconosciuto dal suo pastrano militare, dal cappello, ma…” 
“Ma?”
“Ma la cosa più strana è che invece di due orme, sulla neve ne rimanevano impresse quattro, due da uomo e due da donna”
“Mi stai prendendo per il culo?”
“Cristo, non sono mica rimbambito.
Quattro orme, non una in più, non una in meno.
 Un segno che a giorni verrà a prendersi anche la Sofia”
Ubriacone sì il Berto, ma contafrottole proprio no.
Che il vino gli avesse dato alla testa non era improbabile, ma al punto tale da confondere lucciole con lanterne?
La guerra era finita ormai da tre anni, ma l’Ascanio Slissiga non era tornato.
 L’avevano dato per disperso in Russia, prove però non ce n’erano.
 Qualcuno, informato non si sa da chi, non si sa dove, la sparava grossa: invaghitosi follemente di una valutnaja, una giovane russa che lo aveva nascosto e sollazzato per fargli dimenticare la lontananza dalla moglie, alla fine se l’era impalmata e aveva messo su famiglia.
Ma la dolente Sofia aveva continuato a recitare la parte della vedova inconsolabile.
Se non l’avesse fatto, d’altronde, avrebbe rischiato di perdere la pensione di guerra che non era poca cosa peraltro.
 Che fosse un esempio di fedeltà nessuno era disposto a giurarlo: il ruolo di vestale del focolare domestico non le si addiceva di certo.

Quella mattina il Berto era ruzzolato giù dal letto come un macigno ed era andato difilato in cucina.
 La testa gli rintronava.
 Riempito con una brocca d’acqua gelida il catino, vi aveva immerso la testa, quasi per annegarvi gli incubi che lo avevano tormentato per tutta la notte.
 Scaldato il solito pentolino d’acqua, lo aveva versato in una tazza ed aveva incominciato ad insaponarsi la faccia.
Il vecchio specchio maculato di striature appannate gli aveva rimandato un’immagine spettrale.
 Un fantasma. Un fantasma, come quello che aveva scorto in lontananza durante la sera precedente.
Non era stato un sogno, no e neppure i fumi dell’alcol: se lo ricordava benissimo.
 Doveva parlarne con qualcuno, non se lo poteva tenere sullo stomaco.
Con il rasoio tra le mani sospeso a mezz’aria e gli occhi stralunati si era abbandonato su una sedia.
 Dall’esterno, sull’aia, sentiva il ciabattare sconnesso della Nilde che chiamava a raccolta i polli: poll, poll, poll per il pasto mattutino.
 S’alzava sempre di buonora la Nilde, sgattaiolava fuori dalle coperte in punta di piedi senza far rumore per non svegliare quel rompiscatole di un marito.
Lei doveva pulire la casa, rassettare, riordinare e accudire agli animali e preferiva non averlo tra i piedi quel bipede brontolone che aveva sempre qualcosa da obiettare.
Si era spaventata la Nilde rientrando in casa.
Che ci faceva il Berto con quel rasoio tra le mani?
Un’altra delle sue? Un ennesimo tentativo di suicidio?
 L’aveva torturata per anni e anni con la storia dello schioppo ed ora aveva forse intenzione di andare avanti con la stessa solfa?
 Non era stato facile per lei vivere accanto a quell’uomo nel ruolo di seconda moglie dopo che il Berto, poverino, era rimasto vedovo della Gisella con due figli sul groppone.
 Lei lo aveva sposato più per pietà che per amore: le faceva pena quando lo vedeva seduto all’osteria, irrimediabilmente perso davanti a un boccale di vino.
 Lui aveva giurato e spergiurato che ci avrebbe fatto una croce su quel suo errabondo vagabondare da una bettola all’altra. Non fu così.
A rintuzzare i contrasti tra la Nilde e il Berto ci misero del loro i due figli, Leandro e Leonzio, in particolare quest’ultimo, in piena età adolescenziale, l’età della stupidéra.
La Nilde si faceva in quattro per tutti, ma riceveva soltanto insulti e umiliazioni.
 Che cosa ne voleva sapere lei, che era un’estranea, degli affari della casa, chi le dava il diritto di fare osservazioni ora all’uno ora all’altro sulla pulizia, sulle regole della buona educazione?
Che pensasse agli affari suoi.
Ma non erano solo i figliastri a calpestarla come uno zerbino.
Anche il marito faceva la sua parte.
Quando voleva ferirla, era capace di chiamarla Gisella, salvo a correggersi per farle notare però che la defunta era così e cosà, che lei sapeva come fare andare avanti la casa, senza inutili sprechi e smancerie.
 La Nilde ripeteva fino alla noia che non era disposta ad essere considerata la fotocopia della Gisella, che un minimo di dignità ce l’aveva anche lei e che non pensassero marito e figli di metterla sotto i piedi.
Per fortuna il Leandro, aitante sciupa femmine, come lo definivano gli amici, dopo qualche tempo prese l’abitudine di andare a dormire in quella che era stata la casa dei nonni materni.
Autista presso la ditta Ruzzoletti & C., era costretto a levatacce impossibili.
 Aveva pertanto incominciato a lamentarsi di non potere andare e venire liberamente per casa, secondo i ritmi di quel suo lavoro che lo costringeva a fare il piccione viaggiatore da un capo all’altro dell’Italia.
 Scrollarsi di dosso il giogo opprimente di una famiglia che odiava e potersi godere la propria libertà fu tutt’uno.
Il Leonzio invece aveva deciso di girare il mondo a sbaffo facendo l’aiuto cuoco sulle navi, ma la vita a bordo non era la cuccagna che si aspettava.
Al primo serio litigio, una sera, il Berto, già abbastanza carburato, esplose come una bomba.
Ah, no, lui non si sarebbe fatto comandare dalle donne: i pantaloni li portava lui e basta e non c’era verso di convincerlo del contrario.
 La Nilde, dopo aver sopportato in silenzio, a sua volta, perse le staffe e gli vomitò addosso tutto quello che aveva fin allora taciuto, che era stanca dei continui rimbrotti, che non sopportava più le sue manfrine e, cosa assai più grave, le sue continue sbronze.
Continuando di questo passo, se ne sarebbe andata a vivere per conto suo, anche a costo di lavorare alla filanda da stelle a stelle.
 Messo alle strette, il Berto, a corto di argomentazioni a suo favore, giocò una carta che per un certo tempo ebbe un effetto scenico di indubbia efficacia.
“Va bene, se sono così un disgraziato, se sono un fallimento completo, la faccio finita” e così dicendo staccò il fucile dal muro dov’era appeso e si avviò verso la porta.
 La Nilde, atterrita da questo imprevedibile colpo di scena, gli si parò dinanzi, supplicandolo di ritornare in se stesso, promettendogli che in futuro non l’avrebbe più contrariato.
 Il Berto aveva ottenuto ciò che voleva.
Ma i contrasti tra i due, ad intervalli regolari, si ripetevano e il Berto, puntualmente, metteva in scena l’identico copione.
Una sera, la Nilde, esasperata dalle continue malversazioni, all’ennesimo tentativo del Berto, andò lei stessa a staccare il fucile dal muro.
 Glielo pose tra le mani dicendo: “Toh, vai, falla finita, almeno piangerò una volta sola!”.
 Da quel giorno le minacce del Berto ebbero fine.
“Ma si può sapere cosa ti frulla nella testa?” sbottò la Nilde rientrando in casa, gli occhi, cerchiati da due livide borse, che sembravano uscirle dall’orbita: un muso da rospo, come quello che il Berto aveva in gola e che non riusciva a sputare.
All’osteria della Pergola non si parlava d’altro.
Il Berto vi stazionava in tutti i ritagli di tempo che gli consentiva o non gli consentiva la sua professione di stradino, di messo comunale e, all’occorrenza, di seppellitore.
Aveva vuotato il gozzo, prima con l’Ernesto e poi con gli altri.
 “Prendetemi pure per un visionario, ma io sono sicuro, come cinque più cinque fanno dieci, – fece alzando alternativamente le mani -, di aver visto l’Ascanio Slissìga in carne e ossa”.
Su quest’ ultimo “convincimento” in verità qualche dubbio l’aveva.
Come poteva essere in carne ed ossa uno che era stato dato per morto?
I commenti si sprecavano.
“Ma Berto non è che hai visto due gatti in amore?
 E chi ce lo garantisce che c’era di mezzo proprio la Sofia?”
“Semplice- replicava l’ostessa Maria Stuarda, – basta chiederglielo”.
Ecco trovato il bandolo della matassa, una matassa ben intricata però.
Ma chi avrebbe avuto l’ardire di affrontare la povera vedova, a rischio e pericolo di causarle un trauma che avrebbe riaperto la recente ferita del suo lutto?
C’era poi la storia delle quattro orme sulla neve, due in un senso e due in un altro. “Ma vi pare possibile che uno cammini all’indietro come un gambero?” rideva sguaiatamente l’Ernesto, accalorandosi, come se stesse tenendo un comizio elettorale.
Il Berto s’era appena assopito sotto l’ampia volta del camino, davanti a un ceppo fumigante.
 Vi aveva scorto strane immagini, volti orribili, bocche spalancate, baratri senza fondo che si dissolvevano nella penombra, come impalpabili fantasmi.
Quella sera aveva bevuto più del solito ed aveva concluso l’abbondante libagione con due bicchierini di grappa fatta in casa.
 A quella attribuiva pertanto le evanescenti visioni di quel tormentato dormiveglia.
Ad un tratto però gli parve di udire una voce in lontananza: “Berto, Berto!”.
Era sveglio o stava sognando?
“Berto, Berto!” insisté la voce.
Berto aprì gli occhi, mentre la Nilde era già alla finestra.
Chi poteva essere a quell’ora?
“Berto scendi subito!” ripeté la voce con tono imperioso.
Era l’Imelda, la levatrice del paese; nel bene e nel male, aveva assistito tutte le partorienti, anche quando qualche parto avveniva al di fuori delle regole stabilite.
 Su di lei si raccontavano storie infamanti.
Una certa aria di spregiudicatezza, non lo si poteva negare, era parte integrante del suo carattere, ma da qui ad accusarla di infanticidio ce ne correva di acqua sotto i ponti.
“Eppure – dicevano le solite linguacce – le foglie non si agitano senza il vento.
 L’è una gran baltròcca, buona sola per i calli, pronta a fare i patti anche col diavolo quando sente l’odore dei soldi!”.
E poi c’era quella misteriosa vicenda della Maria Sgalfiöna.
Crederci o non crederci?
Rimasta incinta non si sa da chi e non si sa come, incesto forse, al momento del parto, il frutto della colpa sarebbe stato soffocato con un cuscino e sepolto sotto il letamaio, vicino al torrente.
 Le donne che sul far del mattino vi transitavano per recarsi alla filanda giuravano di sentire tra il gorgoglio dell’acqua il pianto di un neonato.
 Forse si trattava solo di gatti in amore o forse no.
L’Imelda si sgolava per farsi sentire: “Berto, Berto, scendi subito!”
 Quel tono imperioso se lo poteva permettere, perché l’aveva fatto nascere lei quando era ancora alle prime armi.
Si affacciò finalmente.
Scese le scale lasciando cadere un piede dopo l’altro come se le gambe fossero di piombo.
“Berto, ascoltami – disse sbrigativamente l’Imelda – in questo fagotto c’è una bambina nata morta.
 Dovresti portarla subito in camera mortuaria e domani mattina, prima che apra il cimitero, seppellirla nel campo degli innocenti”.
 Si chiamava così, infatti, l’area riservata ai morti bambini, che non erano pochi a quei tempi.
 “Ti rendi conto di che cosa mi stai chiedendo?”
Il Berto, come colpito da un solenne ceffone, aveva improvvisamente recuperato la sua lucidità.
 La Nilde dall’alto stava ad origliare dietro la finestra.
“Fai come ti dico, Berto e non te ne pentirai.
 Ho qui belle pronta una mancia anche per te!” “Ah no, – fece il Berto – povero sì, ma coglione no!
 Adesso mi devi dire fuori dai denti come sono andate le cose!”
“Berto, santo Iddio, non fare domande.
È una bambina nata morta, punto e basta!”
“Basta un corno, voglio sapere la verità.
Di chi è figlia?”
 “Questo non ti riguarda. Fai il tuo dovere e stop”.
“So io qual è il mio dovere: non ho bisogno che me lo insegni tu.
 Io non vado a mettermi nei pasticci per la tua bella faccia, per una faccenda poco chiara.
O mi dici il nome della madre o mi metto a gridare e chiamo gente!”
“Berto, te lo ripeto, non fare colpi di testa.
 Sei già diventato la favola del paese per la storia del fantasma e ora, se ti mettessi a gridare, ti prenderebbero per matto e ti porterebbero difilato in manicomio”.
“Io andrò al manicomio, ma tu andrai in galera, in galera ti ci mando!”
 E così dicendo, la prese per la gola e le strinse le mani attorno al collo.
 “Il nome della mamma, hai capito?
Il nome della mamma o ti strozzo!”.
 La Nilde con le mani tra i capelli, si eclissò nella penombra.
 L’Imelda questa reazione non se l’aspettava proprio e a fatica, dopo tanti
se, tanti promettimi e implorazioni di ogni genere, si decise a sputare il nome incriminato: “So-fi-a”.
“La Sofia?
Quella vedovella inconsolabile?
 Ma con chi l’ha fatta?
 Mica l’avrà messa al mondo per opera dello Spirito Santo?
 Ha cucinato la frittata eh, ed ora vorrebbe farla franca per non perdere la pensione?!
 Altro che nata morta: questo è un assassinio in piena regola!
 Adesso se non mi dici subito chi è il padre ti trascino dritta dritta davanti ai carabinieri, così sarai costretta a cantare!”
 L’Imelda tremava come una foglia ed un brivido di sudore freddo le correva lungo la schiena.
“Ti giuro che è nata morta: la Sofia ha tardato troppo a chiamarmi e quando sono arrivata non c’era più niente da fare!”
 “E chi è venuto a chiamarti.
Chi se la spupazza e dorme nel suo letto?
 Prendere o lasciare.
 Poi possiamo metterci d’accordo”.
 “Berto potresti pentirti amaramente: non chiedermelo”.
 Ma Berto insisteva, gli occhi iniettati di fuoco facevano temere qualcosa di imponderabile, una reazione difficilmente gestibile.
 Con un supremo sforzo delle sue corde vocali, l’Imelda aprì la bocca come se le dovessero cavare un dente a mente serena e pronunciò quel nome che non avrebbe mai voluto rivelare: “Le-an-dro” “Leandro?” ripeté il Berto come tramortito, aggrappandosi al corrimano della scala per non cadere a terra. 
“Leandro? Leandro?”
L’Imelda, quasi sollevata, assentiva col capo: “Leandro.
 Il Leandro che avvolto nel tabarro del povero Ascanio Slissìga riaccompagnava a casa nel cuore della notte la sua Sofia.
Ogni sera con la complicità delle tenebre lei lo raggiungeva furtivamente nel loro nido d’amore e vi rimaneva fino ad ora tarda.
 Ecco svelato l’arcano della misteriosa apparizione di quella notte maledetta”. 
 Il Berto, senza proferir parola, prese tra le braccia l’informe fagotto e, prima dell’alba, seppellì per sempre tra le lacrime il piccolo corpicino ed insieme il fantasma che lo aveva tormentato giorno e notte.

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