Una mota de buter

Non meno ambiziosi dei loro conterranei erano quelli di Curiglia.
Anche il loro paese, abbandonato da Dio e dai santi, e nella bella stagione dagli emigranti, avrebbe finalmente avuto la chiesa che si meritava.

A costo di faticare da stelle a stelle.
 Sull’ambizione però trionfò la dabbenaggine, sapientemente manipolata dalla scaltrezza di un curato burlone, ma non troppo.
L’annuncio fu dato dal pulpito per la festa di tutti i santi.

Il buon uomo predicava con un vernacolo addomesticato ad uso e consumo del suo uditorio.
 Fulgido esempio di una retorica d’altri tempi da fare invidia alle moderne tecniche multimediali: «Domenica prossima, popolo mio, la nostra chiesa si
slargherà da far invidia a quelle di tutta la valle.

Ma badate bene però, fede, fede salda, come le rocce delle nostre montagne.
Ognuno di voi, dunque, porterà una
mota da buter, di quello buono s’intende, e poi vi dirò io il da farsi».
La domenica seguente, le donne vestite di nero, con la gonna plissettata, il corpetto stretto attorno alla vita, il panett variopinto sulla nuca e i padù della festa cuciti a regola d’arte nelle lunghe veglie serali, al lume di candela, si mossero verso la chiesa l’una dietro l’altra con la mota da buter sotto il braccio.

Una teoria di formiche all’assalto di una mollica di pane.
E gli uomini dietro come babbei.

La curiosità li divorava. Il suono delle campane annunciava l’inizio della Messa.
Tuttavia, quella volta, il rito avrebbe assunto un non so che di delirante, una specie di baccanale collettivo, con il curato nella duplice veste di sacerdote e di istrione.

Accatastati, infatti, banchi e sedie, il prete, dall’alto del suo scranno, incominciò ad impartire ordini con voce tonante: «Ora, miei fedeli, accucciatevi tutti contro i muri e sotto il vostro
tafanario stendete la mota da buter.
Per bene vi raccomando. Al mio via, spingete, spingete, fino a quando il miracolo si compirà.
Alla fine vedrete che la vostra chiesa di S. Vittore sarà più grande di quella del S. Giorgio di Runo».
Al ritmo cadenzato del
via, scandito dal prete, rivestito di cotta e stola, i buoni curigliesi, animati più dalla fede che dal buon senso, spinsero con tutte le loro forze le immobili pareti, scivolando inevitabilmente verso il centro della chiesa sulla molle patina del burro.
Un’esperienza esaltante, come quando il treno sul binario accanto si muove e ti sembra di essere proprio tu a partire.
Sta di fatto che, rossi in viso come tacchini, dopo ore di dura fatica, ognuno in cuor suo si convinse di aver cooperato ad ampliare la propria chiesa.
Vuota com’era, peraltro, appariva veramente più grande.
Un momento di festa collettiva.
Con poco più di una
mota da buter a testa e un pizzico di fede senza fronzoli, ben altrimenti dagli altri valligiani, quelli di Curiglia erano stati capaci di compiere il miracolo.
D’altra parte chi l’ha detto che la fede non può smuovere le montagne?

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