La passione della caccia
Don Callisto era giunto a Grantola nel fiore degli anni, rubicondo in viso e forte come una roccia.
Sentiva spesso ribollirgli in seno un vago senso di inquietudine che forse avrebbe trovato qualche valvola di sfogo incontrollato, se non avesse per caso scoperto, in un’uggiosa serata d’inverno, nell’unica osteria immersa tra le vecchie case, una nuova vocazione: la caccia.
Certo faceva a pugni con quella che aveva animato gli anni della sua giovinezza.
Spesso, infatti, si era identificato nella figura dell’evangelico pescatore di uomini, mai però in quella di un cacciatore, sia pure di anime.
I racconti infervorati dei soliti cacciaballe, che sembravano reduci da straordinari safari africani, catturarono la sua attenzione e, plaf, anche lui cadde nella rete come una starna maldestra.
In realtà quei poveri sempliciotti non si erano mai spinti al di là dei boschi della Valtravaglia e, all’infuori di una lepre o di qualche raro tasso, stanato a fatica dal suo pertugio segreto, non erano mai riusciti a riempire il loro carniere.
Merli e tordi se la ridevano a crepapelle quando li vedevano comparire tra i boschi così bardati, come in missione speciale per non si sa quale esercitazione militare.
Ma tant’è: le loro bàgole, frutto più di una fervida fantasia a caccia di boccaloni, riuscirono a far breccia nella testa del povero curato.
Recitando ad alta voce i salmi di un popolo avvezzo alla guerra come quello d’Israele, continuava a ripensare alle imprese da Rodomonte che i suoi parrocchiani andavano raccontando ai più sprovveduti.
Non la pensavano così le loro donne che, a fine stagione, non avevano avuto neppure la soddisfazione di cucinare una polenta con quattro passeri da pollaio.
Un bel giorno, don Callisto cedette dunque alle lusinghe di quegli inguaribili don Chisciotte.
Armato di tutto punto, con casacca e pantaloni nuovi di zecca, si pose al seguito di quella masnada.
Inutile dire che la prima uscita fu un vero disastro: per poco don Callisto, tratto in inganno da un fruscio sospetto, non fece secco il suo cane che se la cavò con una sventagliata di piombini sul posteriore.
Ma la brama di competere con gli assatanati compagni d’avventura finì per divorarlo.
Ogni mattina, prima di messa, andava girovagando per boschi e prati, voglioso più che mai di portarsi a casa come trofeo almeno un ingenuo leprotto o qualsiasi altra preda: l’importante era trovar credito presso la temuta opinione degli infingardi millantatori di imprese venatorie.
Intanto però la fama delle sue scorribande, sempre più dissennate, s’era sparsa per il paese.
I lunghi ritardi per la celebrazione della messa mattutina avevano mandato su tutte le furie le pie beghine che dovevano attendere il suo ritorno, chine sugli inginocchiatoi e per lo più in una chiesa gelida come una ghiacciaia.
Alla fine, tutto trafelato, don Callisto giungeva, indossando ancora la divisa da cacciatore.
Dopo aver legato il povero cane sul sagrato, spalancava la porta con un calcio e il sagrestano si affrettava a dar di corda alle campane che suonavano più o meno a lungo secondo l’umore del prete cacciatore.
Don Callisto si infilava in fretta e furia i paramenti sacri e, in men che non si dica, con una foga pari al suo gagliardo appetito non placato, divorava epistole e vangeli, prefazi e canoni a velocità supersonica.
Del resto che ne sapevano quelle quattro beghine velate, ignoranti come capre, incapaci di comprendere anche le più elementari parole latine.
Che continuassero a recitare i loro interminabili rosari e le loro lagnose litanie e non si impicciassero degli affari del prete, cose da uomini.
Don Callisto le aveva però sottovalutate, perché il plumbeo velo che eclissava le loro sembianze nascondeva una lingua biforcuta, che non si sarebbe arrestata neppure davanti al cardinale arcivescovo
La sorpresa
E così avvenne.Era appena arrivato a Milano Ildefonso Schuster, un monaco prestato alla diocesi ambrosiana per ristabilire il rigorismo morale del suo lontano predecessore, Carlo Borromeo.
Le lamentele delle pie donne non rimasero inascoltate.
Quella mattina, durante la consueta lunga attesa del parroco, in missione speciale sul S. Martino, alla ricerca della preda agognata, un pretino smilzo e dal volto emaciato varcò la soglia della chiesa parrocchiale di Grantola.
«Dov’è il curato?»
chiese con una voce più mite che mai.
«S’accomodi in sacristia, reverendo, il parroco sarà subito qui, almeno spero, se la caccia sarà stata propizia».
«Non importa- ribatté con tono dimesso il pretino- intanto continuerò a recitare il mio breviario».
«Sarà un missionario di passaggio» argomentò il sagrestano per rispondere agli sguardi insistentemente curiosi delle donne che se ne stavano a biascicar rosari.
Il campanile batté le sette, le sette e mezza, suonarono le otto, ma quella mattina il curato sembrava aver perso la strada del ritorno.
Poi, finalmente, quando Dio volle, la porta della chiesa si spalancò.
«Mattinata magra, donne» esclamò don Callisto, levandosi il fucile di tracolla.
Con suo grande stupore, vide però che il sagrestano, anziché precipitarsi verso il campanile per i quattro tocchi di rito, s’affrettava verso di lui, con fare preoccupato.
«Santo cielo, che cosa poteva essere accaduto?
Moribondi non ce n’erano, partorienti neppure, che vorrà quest’asino di sagrestano?
Su, su, in fretta, suona quelle maledette campane che possa sbrigarmi a dir messa prima di cader svenuto dalla fame».
«Signor curato, mi ascolti, in sacrestia c’è un pretino che l’aspetta da almeno un’ora e mezza!»
Diavolo, chi poteva essere quel rompiscatole, venuto a scompigliare il placido tran tran della sua vita di parroco di campagna.
Non ebbe il tempo di concludere questa semplice riflessione che, come ai discepoli di Emmaus, i suoi occhi si aprirono e in quel pretino smilzo, ahimè, riconobbe inequivocabilmente il suo pastore.
La porta della sacrestia si chiuse pesantemente dietro di lui e, mentre le campanette della chiesa di S. Carlo suonavano a distesa, non ci è dato di sapere che cosa abbia detto il cardinale al suo curato.
Possiamo forse immaginare un tormentone come quello descritto ne I Promessi Sposi, quando il povero don Abbondio si trovò al cospetto del cardinal Federico Borromeo.
Sta di fatto che don Callisto ne uscì stravolto, col viso più purpureo che mai, con gli occhi cerchiati e una tremarella per tutto il corpo.
Quella mattina e nelle seguenti, la messa fu celebrata con un fervore da neofita.
Da quel giorno il povero curato dovette, suo malgrado, appendere schioppo e cartucciera al camino e lasciarsi di tanto in tanto trasportare dai ricordi e dalla fantasia in dolci avventure venatorie che gli sarebbero state precluse per sempre.