La gatta

La vecchia sghignazzava: “Non la passerete liscia!”.
 Occhi vitrei e penetranti, labbra contratte in una smorfia beffarda, Marietta giurava e spergiurava che quei due piccioncini innamorati se li sarebbe cucinati a dovere.
E c’era da crederle, perché le sue maledizioni, diceva la gente, s’attaccavano come una ventosa ai malcapitati.
Abbarbicata dall’alba al tramonto al balcone della vecchia casa di ringhiera, come una frasca contorta d’edera selvatica, scrutava con sguardo maligno uomini, donne e bambini che avevano la ventura o la disavventura di addentrarsi in quell’antro malefico.
“Baciapile che non sei altro, bigottone da strapazzo, cosa pretendi di fare a quella ragazza?”.
 Ma l’Armuzzi Gianantonio se ne rideva di quella vecchia megera.
 Poteva pure lanciargli tutti gli anatemi di questo mondo, ma lui la sua Maria l’avrebbe impalmata, eh come!
Mancavano ormai pochi giorni al fatidico sì.
Via vai di gente.
 Preparativi frettolosi, ma lei, la Marietta, dal suo appostamento non si muoveva. Gli occhi gialli da felino misuravano la preda.
Eh sì, ci avrebbe pensato lei a fargli una fattura e il bellimbusto se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe e le orecchie basse.
Gelosa della Maria?
 E perché?
Non era forse un fiore di ragazza, sarta provetta, seria, irreprensibile e per lo più bella come la Madonna del Rosario, quando la prima domenica di ottobre passava in processione con la banda al seguito?
“Non te ne andare Gildo, non lasciarmi sola!”“Sono stanco di rompermi il groppone a trascinar legna giù dai boschi, dalla mattina alla sera.
 Almeno tu, Marietta, o bene o male, un posto alla filanda ce l’hai, e alla fine della quindicina un gruzzoletto sicuro te lo ritrovi, ma io…”
Non ne poteva proprio più il Gildo di quella vita da cani.
 Diciotto anni suonati, una faccia ancora imberbe, ma un cuore innamorato pazzo per quella brunetta dispettosa che lo aveva tormentato fin dai banchi di scuola.
Un fulmine a ciel sereno era stato.
 L’aveva vista quella domenica mattina sulla battigia, zoccoli in mano e la sottana sollevata con un lembo delle dita.
 Era proprio lei! Arrancava piano piano lungo l’alveo del fiume e di tanto in tanto si chinava per smuovere le pietre dove si nascondevano le bottatrici.
“Che stai facendo Marietta?
 Non son mica giochi per ragazze!”
Lei aveva risposto con un largo sorriso.
Sì, era vero, ma non stava giocando.
 Quattro fratelli da sfamare e una povera madre vedova che si arrabattava con quel poco che offriva una campagna avara e bizzosa.
Il padre, un emigrante stagionale, come tanti altri, non era più ritornato.
 Un telegramma, un urlo di disperazione, un via vai di gente e poi la solitudine di un dolore che ti resta dentro e che è tutto tuo.
“Ti aiuto anch’io” e il Gildo, con le sue braccia muscolose e l’intraprendenza di un cane da caccia, aveva snidato un secchio di bottatrici da poterne cucinarne per una settimana.
“Grazie Gildo!”.
 La Marietta si era sentita donna per la prima volta ed aveva avvertito un senso di pienezza in quella sua esistenza piatta ed incolore.
“Non ci lasceremo mai, Gildo, vero?
” Non ti lascerò, Marietta”.
Ora però il Gildo se ne andava.
 Dove? In Svizzera, a fare il cameriere.
 E chissà quante donne più belle di lei avrebbe incontrato e poi la lontananza…
Pensieri che passavano come nere nubi, foriere di tempesta nel limpido cielo del suo amore appena sbocciato.
La barca si allontanava veloce e si portava via, insieme col Gildo, sogni e speranze forse destinati a rimanere tali.
Secondo un’autorevole testimonianza, nel 1530, il curato, soprannominato il pretello, era stato proditoriamente derubato e ucciso nella stessa chiesa del paese.
 L’assassino proveniva dalla Val Vigezzo, un disperato a cui la fame aveva annebbiato ogni residuo di ragionevolezza.
Un senso di terrore si era impossessato degli abitanti del villaggio.
 Molti temevano che l’ira divina si abbattesse su di loro per quel gesto sacrilego, benché la responsabilità fosse imputabile ad un forestiero.
Riti propiziatori e processioni penitenziali tentarono in ogni modo di scongiurare il temuto castigo. Il corpo del sacerdote fu subito sottratto alla vista dei fedeli e sepolto altrove.
Alcuni, addirittura, non volendo ammettere un evento così sconcertante, negavano che fosse veramente morto.
La leggenda, che si tramandò nel tempo, fece poi il resto.
“Nonna Caterina raccontaci ancora la storia del pretello!” Era almeno la centesima volta che i fratelli di Marietta formulavano quella richiesta.
Una sorta di brivido elettrizzante che rendeva meno monotone le lunghe serate d’inverno, trascorse nella stalla per catturare il calore degli animali: un espediente per risparmiare la legna del camino.
 “Dunque dovete sapere…” – volti immobili e membra avvinghiate alla ricerca di un appiglio sicuro – che un bel giorno, trascorsi alcuni anni, giunse in paese un nuovo curato.
A qualcuno parve un viso già noto, ma nessuno osò rivelare agli altri i propri dubbi.
Eppure qualcosa di strano si poteva leggere in quello sguardo enigmatico.
Una domenica, alla fine della messa, nel momento della benedizione, uno spettacolo orripilante si offrì alla gente: un teschio con i denti digrignati e due mani scheletriche che si muovevano nell’aria per tracciare il segno di croce.
 Ne seguì un fuggi fuggi generale e da quel giorno si persero definitivamente le tracce del misterioso personaggio”.
Neuchatel, Beau Rivage Hotel.
Costruzione imponente, albergo di primordine, affacciato sul lago.
Siro vi aveva lavorato per tutta la vita ed ora si apprestava a ritornare in patria o, come si diceva allora, al paesello natio.
Uomo di indiscussa fiducia, tre lingue parlate correttamente, poteva permettersi lo sfizio di raccomandare quell’acerbo nipote in cerca di fortuna.
 Gildo era un po’ goffo, non lo si poteva negare, ma aveva un fisico slanciato, un sorriso accattivante e due occhi vivaci e intraprendenti: ce l’avrebbe fatta.
Giacca bianca e papillon: un autentico damerino.
Se ne accorsero subito i clienti e ancor più le sofisticate signore che volteggiavano in stola di visone e lungo bocchino tra le dita affusolate.
Gild di qua Gild di là, se lo spupazzavano a loro piacimento, come un nuovo giocattolo per le loro avventure galanti, non sempre dissimulate a dovere.
Madame Généviève d’Estèl era un’artista da tabarin.
Labbra sensuali, capelli biondi e riccioluti, portamento altero, era stata attratta più che dall’olezzo dei capelli impomatati di brillantina di un maturo rampollo della
noblesse locale, dal profumo irresistibile dei suoi soldi.
 Così, abiurando al suo passato, non propriamente limpido, Généviève si era trasferita nella lussuosa villa, sulla sponda opposta della città.
Soffriva però di un’inguaribile solitudine, nonostante le premure della servitù, essendo il marito un ricco banchiere in perenne trasferta per affari.
 Le ingenue attenzioni di quel nuovo arrivato, sollecitarono una sorta di perverso
maternage.
 “Gild, voulez-vous m’accompagner chez-moi, s’il vous plait ?”.
 Gild non poteva minimamente sospettare di essere caduto in trappola.
 Généviève era fermamente intenzionata ad insegnargli la lingua: “Je vous apprends le francais, cheri”, in cambio dei suoi favori.
 Divenuto in breve cavalier servente per recapitare pacchi sempre più numerosi, lasciati nella hall dell’albergo, cheri, si trovò un giorno solo con lei a condividere la quotidiana passeggiata nel parco.
 Généviève scivolò, una prima volta sul prato, una seconda sulla scalinata ed una terza nel suo talamo nuziale, sempre tra le braccia vigorose del suo giovane cicisbeo.
Una lettera, poi un’altra ancora: Marietta era al settimo cielo.
 Parole alate alle quali non era avvezza.
 L’amore bussava prepotentemente alla sua porta e lei non aspettava altro che il ritorno del suo Gildo.
Spesso il suo sguardo spaziava lontano, su su verso Stresa o Pallanza, dove i contorni del lago divenivano sempre più labili.
Ed allora poteva immergersi nel cielo ovattato della fantasia dove ogni sogno diventa realtà.
Le lettere in risposta alle sue appassionate diventarono più rare e, alla fine, silenzio assoluto.
Che cosa poteva essere capitato?
 Marietta non osava neppure pensarlo nell’anticamera del cervello, ma il tarlo insidioso del dubbio finì per logorarla.
 Come un ferro rovente immerso in un secchio d’acqua gelida, anche il suo amore si andava stemperando giorno dopo giorno.
E dall’amore all’odio il passo fu breve.
Esaltante iniziazione che lo introduceva nelle spire di una passione seducente, giocata sul filo di una raffinata sensualità che Gild non avrebbe mai potuto immaginare.
 Una donna di classe, madame Généviève e, soprattutto, un’amante sagace ed irresistibile.
 Aveva risvegliato i suoi sensi ancora acerbi, ne aveva tratto potenti note, fuse in un’incantevole melodia.
 La magia di quegli incontri si ripeteva a ritmo serrato, marito permettendo.
Il rango acquisito però finì per consigliarle una maggiore prudenza, memore di qualche insidiosa delazione che in passato l’aveva costretta ad una strenua autodifesa con un uomo tollerante, sì, ma non disposto a sopportare il sarcasmo di chi, non sempre velatamente, alludeva alle protuberanze della sua cervice.
Il Gildo l’aveva proprio presa male.
 Nella sua ingenuità era arrivato ad immaginare che quella storia potesse avere un seguito, una fuga romantica, un futuro da sogno, che so io, in una sorta di paese di cuccagna.
 Madame Généviève, avvertita in tempo della tempesta che si stava addensando sul suo capo, congedò senza tanti preamboli il bel Gild e si negò ad ogni tentativo di riallacciare i precedenti rapporti.
 La tempesta si era invece abbattuta su Gild, che vagava come un’anima purgante per i corridoi dell’albergo, incapace di farsene una ragione.
 A stento riuscì a far fronte agli impegni quotidiani, anche se tutti ormai conoscevano la sua sfortunata vicenda: “Non te la prendere, Gild, così è la vita!
 Gli amori vanno e vengono e uno come te non farà certo fatica a rimpiazzarla!”
 Ma Gild sembrava sordo ad ogni sollecitazione.
Sì, se l’era meritata questa lezione.
 Aveva dimenticato troppo in fretta l’amore di Marietta, il suo primo e forse unico amore ed ora ne pagava il fio.
Inutile piangere sul latte versato: Marietta, la conosceva bene, era una ragazza di carattere, non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Storie di magia, di sortilegi, di stregoneria e di malefici erano gli argomenti preferiti dei racconti che nonna Caterina narrava la sera al lume di candela.
Nella penombra il suo profilo assumeva sembianze spettrali: una donna senza età, emersa dall’abisso del passato e proiettata nel futuro.
Giurava e spergiurava che lei di cose strane ne aveva viste, eccome.
Tutti in paese, ad esempio, ricordavano la zia Germana: vittima di una fattura per questioni di eredità, di giorno era completamente inferma, ma le sue gambe, rigide come pezzi di legno, riprendevano vigore durante la notte.
E che dire di quel lembo di prato in Bustescia, dove la neve si scioglieva immediatamente, proprio nel punto in cui era stata trovata una bambina, morta in circostanze misteriose?
 Ma il pezzo forte di nonna Caterina era la storia della Tecla, medegotta e strega nello stesso tempo. Quando era morta, la gente l’aveva previsto con un notevole anticipo, si erano aperte le cateratte del cielo e la sua fossa si era riempita d’acqua fino all’orlo.
Anche la terra sembrava rifiutarsi di accoglierla nel suo grembo.
Si raccontava che la Tecla avesse venduto l’anima al diavolo.
 L’aveva incontrato in un crocicchio di strade vicino al cimitero, sotto le sembianze di un giovane galante.
Dopo un primo approccio però si accorse che aveva zampe da caprone e occhi di fuoco.
Quel che avvenne, nessuno mai lo seppe, ma da quel giorno la Tecla poteva trasformarsi in cane o gatto a suo piacimento, ed entrare di soppiatto nelle case o nei cortili per tenere sotto controllo amici e nemici.
Vendere l’anima al diavolo: la Marietta non avrebbe esitato neppure un istante.
 Vendicarsi dell’affronto subito dal Gildo che aveva infranto le sue speranze e l’aveva precipitata in un abisso di solitudine dal quale non si sarebbe mai più rialzata: questa l’ossessione martellante di tutta la sua vita.
“Scendi Gild, non fare pazzie!”
 L’urlo disperato di Henriette, nel giardino dell’albergo aveva richiamato l’attenzione di clienti e camerieri.
Gild era salito sul cornicione e minacciava di lanciarsi nel vuoto;
 “Ti prego, non farlo Gild, mi daresti un grande dolore!”.
Henriette era sincera.
 Erano approdati a pochi giorni di distanza al Beau Rivage Hotel, lei dalla Val d’Illiez, nel Vallese, in cerca di un lavoro più sicuro e remunerativo, lui dall’Italia.
Henriette, nel corridoio del terzo piano, gli si era parata dinanzi con le braccia aperte come un Cristo in croce.
 Gild, visibilmente alterato, l’aveva però respinta con un gesto sdegnoso, ma non troppo.
 Chi ha intenzione di suicidarsi lo fa e basta, senza tentennamenti o scene plateali.
Si lasciò pertanto convincere, o meglio finse di lasciarsi convincere.
 Santo Iddio, allora era vero che quella madonnina infilzata era cotta di lui!
 Non aveva voluto crederci quando il Martino e la Giuditta, colleghi di lavoro smaliziati, glielo avevano sussurrato all’orecchio: “Gild smettila di pensare a quell’altra, ti ha fregato, lo vuoi capire?
Ti ha portato in paradiso ed ora sei precipitato nell’inferno: una cocotte d’alto bordo e nulla più!”.
 La pietà aveva ceduto il passo al dileggio e Gild era divenuto, giorno dopo giorno, lo zimbello di tutti. “Mi scoppia la testa, non ne posso più, voglio farla finita!
” fu la reazione all’ennesima provocazione, ma gli occhi lucidi di Henriette l’avevano già convinto a recitare un copione scontato, senza esiti tragici.
 Gild si lasciò dunque catturare come un orso fuggito dalla gabbia e si ritrovò tra le braccia della sua tenera Henriette.
“E’ una bambina!” annunziò una corpulenta ostetrica dai muscoli mascolini, uscendo dalla camera.
 Gild aveva aspettato l’evento con trepidante attesa. Quell’esserino implume era il coronamento di un amore divampato come un incendio, dopo il mancato suicidio e sancito, poco dopo, con un matrimonio in piena regola.
“Come intendete chiamarla?” chiese con voce stentorea, dall’accento teutonico, il donnone che gli stava di fronte.
 Per un istante Gild ripercorse come in un flashback tutta la sua vita e gli parve che una vocina insistente dentro di lui gli suggerisse: “Maria, Maria!”.
 Maria in fondo era un bel nome, una sorta di consacrazione preventiva, ma era anche il nome di Marietta, la sua povera Marietta.
 Forse si trattava di una tardiva, quanto inutile resipiscenza.
Maria era cresciuta, bella come un fiore di campo, limpida come acqua di sorgente. Gildo era tornato con quel po’ po’ di ragazza al paese natio.
“Che sventola!” commentavano i giovani sfaccendati, fischiando con due dita tra le labbra al suo passaggio.
Maria procedeva imperterrita, con gli occhi bassi, senza tentennamenti.
 Poi era comparso l’Armuzzi Gianantonio, aitante venditore ambulante di aghi, uncinetti, bottoni, fettucce e nastri, passamaneria, pizzi e merletti, fili di organza.
Maria aveva imparato dalle suore preziosine, oltre che a leggere, scrivere e a far di conto, anche l’arte del taglio e cucito e quel giovane le procurava settimanalmente l’occorrente per il suo lavoro di sarta. Talvolta le visite si intensificavano ad arte con la scusa che il prodotto richiesto non era immediatamente disponibile.
 
Al Gildo e all’Henriette, comunque, il Gianantonio non dispiaceva.
 Un ragazzo casa e chiesa, senza troppi grilli per la testa, serio, lavoratore, insomma un buon partito, il meglio che si potesse desiderare per la Maria. Sarebbero stati l’un per l’altra, come l’acqua e la brocca che la contiene: due cuori e una capanna.
E la capanna era ormai pronta, in vista delle nozze imminenti, lassù all’ultimo piano della casa di ringhiera dove la Marietta dominava incontrastata come un indomito guardiano del faro.
 Una vita infelice la sua per la cocente delusione subita dal Gildo.
 Ora, però, sua figlia Maria era caduta tra le sue grinfie: non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
 Anche lei doveva essere a tutti i costi strappata a quel bell’imbusto: era questo il prezzo che avrebbe dovuto pagare per quel mascalzone di suo padre.
 Ad ogni incontro i due promessi sposi, indaffarati a preparare il loro nido d’amore, a trasportar mobilia, piatti e stoviglie, nonché l’immancabile dote, si trovavano puntualmente tra i piedi una gatta nera, sbucata da chissà dove.
 Si intrufolava tra le gambe di lui e soffiava minacciosa come una serpe.
Al colmo dell’esasperazione un giorno, anzi una sera, il Gianantonio montò su tutte le furie ed in men che non si dica l’afferrò per la collottola e la gettò dal balcone.
 Un miagolio lacerante, un urlo quasi umano!
“Oh Dio, Maria, l’ho fatta fuori!”.
Ma la gatta, dopo un attimo di stordimento, si rialzò e, trascinandosi a fatica, si dileguò nel buio della notte. I gatti, si sa, hanno sette vite. 
 
“Marietta che ti è successo? chiese la Clementina, il giorno dopo il fattaccio.
 La donna, infatti, riusciva a malapena a scendere le scale, zoppicava, il volto pesto, le mani livide e uno sguardo perverso che tradiva odio e cocente delusione.
 “Non è niente, Clementina” rispose seccamente
“Una caduta accidentale, non ti preoccupare”.
 Anche lei, come la gatta della sera prima, si dileguò nell’ombra.
 L’amore dei due giovani sposi aveva avuto la meglio e le sue malefiche arti magiche erano state esemplarmente sconfitte

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