La losura

Caterina, una ragazza già attempata, dal passato non propriamente limpido, era finalmente riuscita ad accalappiare l’uomo dei suoi sogni.
In quel breve fidanzamento che aveva preceduto le nozze, si era sforzata, con un comportamento inusitato, straordinariamente sobrio ed esemplare, di far dimenticare i suoi trascorsi che non erano pochi.
Dio sa come avrebbe voluto tacitare le dicerie delle comari di paese che si complimentavano con lei per il nuovo definitivo amore, almeno così sembrava.
Ma Caterina sapeva benissimo che dietro i sorrisi di circostanza si celavano le più ardite insinuazioni.
La narrazione divertita delle sue molteplici avventure galanti era, infatti, condita da un senso di rispettoso compianto per il nuovo venuto al quale si attribuivano, come inevitabile ornamento della fronte, un paio di ben ramificate corna.
Le maligne allusioni di quelle che, in un passato non lontano, erano state le confidenti privilegiate dei suoi fugaci amori, pur farcite di garbate attestazioni di rispetto, le impedivano di assaporare fino in fondo la gioia di un’esaltante storia d’amore.
I giorni passavano e la gente era ormai propensa a dimenticare.
Anche in un piccolo paese di lago, l’oblio stempera le animosità ed i risentimenti come l’olio lenisce le ferite.
E di ferite Caterina ne aveva inferte parecchie col suo cipiglio graffiante e con quella sua bellezza sensuale che l’aveva trascinata da un talamo all’altro senza riguardo per le povere mogli tradite, anzi spesso messe alla gogna in un impari confronto con la procace concorrente.
E venne finalmente il sospirato e temuto giorno delle nozze.
Spavalda come non mai, Caterina ebbe l’impudenza di presentarsi in pubblico indossando un candido abito nuziale, con un lungo strascico, più simile ad una coda che ad un velo da sposa.
Il complice silenzio di amici, amiche e conoscenti dovette però scontrarsi con la candida ingenuità della più scriteriata del paese.
La chiamavano tutti la Lòsura  (La lucertola) per quel suo sorriso ebete, in perfetta sintonia con la fissità attonita del suo sguardo e per quel suo persistente stazionare ai margini delle strade, negli angoli più solatii.
Da queste postazioni privilegiate, la Lòsura poteva godersi, come in una sequenza filmica, senza soluzione di continuità, il lento dipanarsi della vita del paese.
Ma per lei ogni fatto era fonte di intimo godimento, non svilito da nessuna ombra di malignità.
A 60 anni suonati, era rimasta fondamentalmente una bambina ingenua, libera da ogni pregiudizio.
Quel giorno, addossata al muricciolo della ferrovia, di fronte all’ingresso della chiesa, attendeva l’uscita degli sposi al suono festoso delle campane.
Nel vortice esaltante di quel magico clima di euforia, tipico di ogni cerimonia nuziale, la povera Lòsura tutta eccitata e rossa in viso come un gambero, gridò a gran voce: «Viva la sposa, porca vacca!».
L’intercalare conclusivo era parte integrante del suo lessico abituale, ma non così l’intese la Caterina che non aveva tenuto in nessun conto la virgola interposta tra le due esclamazioni.
Adirata come una furia, assalita improvvisamente da un incontrollabile senso di colpa, abbandonò bruscamente il braccio dell’inconsapevole marito, appena impalmato e si scagliò contro la malcapitata Lòsura coi pugni puntati sotto il mento.
«Taci, bastarda – le disse – o ti strappo la pelle dalla faccia!»
La povera Lòsura nella sua dabbenaggine, restò a bocca aperta, ignara dell’enormità della sua infelice sortita.
Si allontanò a testa bassa, ancora incredula che il suo grido benaugurale fosse stato inteso come un insulto da quella che aveva sempre considerato, lei sola forse in tutto il paese, un’amica carissima.

 

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