«Oh che storia mi tocca sentire!» sbottò il maresciallo Ducatoni della Finanza di Biegno, tormentandosi nervosamente i mustacchi neri come il carbone e grattandosi di quando in quando la nuca, segnata da un’incipiente calvizie.
«Questa non me la sarei proprio aspettata!».
La Veneranda Zanoni era stata fermata in frontiera e le guardie di servizio, sotto le ampie sottane, le avevano trovato ogni ben di Dio: caffè, cioccolato, sigarette, zucchero e dadi.
La pedinavano da un bel pezzo, ma lei, appena le si avvicinavano, gridava come un’ossessa, che la lasciassero in pace, che anche lei aveva un marito, sia pure all’estero per lavoro, che non pensassero quei giovani sfaccendati che potesse prestarsi alle loro voglie indecenti.
Vita dura quella delle guardie di finanza, relegate sul valico tra Biegno e Indemini.
Una casermaccia malmessa, quattro buchi infestati dai topi, fessure dalle quali nei giorni di vento si insinuava un’aria tagliente che penetrava nelle ossa.
E non bastava la gagliardia della loro giovane età: poveri ragazzi provenienti dal sud, dove il freddo pungente della montagna era solo un fugace accenno nei racconti degli emigranti.
Non bastava neppure la vecchia stufa: in un batter d’occhio divorava cataste di legna di faggio che il Cechìn Gandola riforniva puntualmente al calar dei primi freddi.
Molti di loro si accasavano con qualche ragazza della valle, altri mantenevano un’ostentata verginità, che li rendeva però più appetibili alle numerose vedove bianche.
La lontananza dei mariti, emigranti per la maggior parte dell’anno all’estero, le costringeva, infatti, ad una forzata continenza, non sempre saldamente mantenuta di fronte alla prorompente virilità di quelle giovani reclute.
Lontananze che si sovrapponevano e si intrecciavano in un rigurgito di sentimenti e di passioni.
Giovani esuberanti, privati degli affetti familiari, cercavano comprensibilmente calore nei talami troppo lungamente disertati.
E, in alcuni casi, qualche parto avveniva con un anticipo di troppo, ma, si sa, anche se i conti non tornavano, la scaltrezza femminile riusciva sempre a porvi rimedio.
In ogni caso, unioni uscite finalmente dal tunnel del limitato orizzonte paesano, generavano bambini solidi e rubicondi, dalle fattezze decisamente mediterranee.
Ad una generazione gracile e cagionevole, frutto di matrimoni tra affini, ne subentrò una nuova.
In quell’alveo fecondo confluirono la solarità delle terre del sud e l’apparente compostezza nordica.
I teroni, disprezzati e vilipesi, divennero, in breve tempo, generi invidiabili di arcigni suoceri inutilmente intransigenti.
Gli estremi inevitabilmente si toccano e dalla scintilla che scocca divampa un incendio incontrollabile.
Antonio Ducatoni aveva passato la quarantina, senza aver peraltro incontrato l’anima gemella.
Fedele servitore dello Stato, andava dicendo: «La legge è legge e va rispettata, costi quel che costi!». Non la pensava così la Veneranda ed era in buona compagnia.
La guerra aveva lasciato dietro di sé una scia di miseria che neppure le periodiche rimesse degli emigranti riuscivano a mitigare.
«Bisogna arrangiarsi come si può, non è possibile legare la bocca all’asino»: era questa la legge dei valligiani.
>Il maresciallo Ducatoni, dunque, tollerante fin che si vuole, aveva alla fine perso la pazienza e si era deciso a chiamare una visitatrice donna, la Martina Zanello, che potesse svelare l’arcano di quel traffico occulto.
Apriti cielo!
Quando la Veneranda fu spinta in malo modo in un locale attiguo all’ingresso e, suo malgrado, dovette spogliarsi, il maresciallo intravide dalla porta semiaperta una figura esile e seducente.
Per un istante si pentì di essersi alienato la sua simpatia: mai avrebbe immaginato che sotto l’opacità di quelle gonne ingombranti si potesse celare un corpo di così rara bellezza.
Col palmo della mano andava picchiettandosi la fronte, maledicendo la sua insulsa dabbenaggine.
Ma tant’è.
La frittata era fatta ed ora sarebbe stato difficile risalire la china.
«Lasci stare il verbale – bofonchiò il Ducatoni, rivolto alla visitatrice – ora me la sbrigo io».
La preda era caduta nella sua rete ed il maresciallo non voleva lasciarsela sfuggire.
Un’occasione come questa non gli sarebbe mai più capitata.
Quanto ben di Dio inutilmente sprecato in un’attesa spasmodica di un raro ritorno di un marito perennemente lontano!
E lui, il povero maresciallo Ducatoni, imbambolato come un allocco, ad aspettare chissà chi, mentre gli anni passavano veloci come uno stormo di allodole verso terre lontane e sconosciute.
«Mia cara Veneranda – e così dicendo la voce assunse un tono tra il carezzevole e il minaccioso – siete proprio cascata in un bel pasticcio!
La legge parla chiaro: multa pecuniaria, arresto e chi più ne ha più ne metta!».
La poverina tremava come una foglia investita da una folata di vento gelido del nord, ma poi si rianimò e finì per sputare quel gran rospo che teneva in gola; «Ma se l’ha detto anche il curato!».
«Che cosa?»
la interruppe inviperito il Ducatoni al colmo dell’indignazione.
Dunque era vero, non erano frottole quelle che si raccontavano in paese.
Bell’imbusto quel pretino dalla faccia da santerello, tutto inchini e sorrisi compiacenti.
Noi qui a farci il mazzo e lui, guarda un po’, a procurare alibi a chi viola la legge.
Ah, ma mi sentirà, e come mi sentirà!
Assorto in questi pensieri, andava misurando a passi ora lenti, ora concitati quello che si sarebbe dovuto chiamare ufficio.
Le gote si erano dipinte di un rossore che tradiva l’impeto dello sdegno che gli divorava lo stomaco e gli saliva su su fino ad alterargli la voce: «Adesso ci si mette anche il prete!
E noi che ci stiamo a fare qui, maledizione?»
Il rosario di imprecazioni raggiunse vertici al limite della decenza, ma la Veneranda non si scompose.
Per lei valevano di più le parole del curato che gli che le stava lì di fronte.
Sì, era proprio vero: l’ultima volta che era andata a confessarsi per il precetto pasquale, assalita da un dubbio che la tormentava, aveva rivolto a don Ausonio quella domanda che si era posta tante volte nelle notti insonni: «Signor curato, ma è proprio peccato?»
Un attimo di silenzio, poi nella penombra del confessionale, dietro la grata, una vocina flebile pronunciò il verdetto incriminato, una specie di oracolo che nel più breve tempo possibile, in nome naturalmente della più rigida discrezione, aveva fatto il giro del paese: «Peccato non farla franca!».
Incredibile, ma vero, il sant’uomo l’aveva assolta e quasi legittimata a continuare nel suo «scellerato» proposito.
Già, come avrebbe potuto diversamente sfamare quattro bocche mai sazie con quelle poche patate che la terra avara di montagna offriva e con quelle rare galline, messe in pentola solo dopo l’accertata impossibilità di ricavarne qualche uovo?
I pochi franchi svizzeri che le mandava il Peppino dall’Engadina, dove faticava da mane a sera, bastavano appena per comprare il pane, il riso, la pasta, la farina da polenta, lo strutto per la minestra, la mortadella ed il latte dalla Pina quando la mucca era fresca, così si diceva dopo che aveva partorito il vitello.
Ma al resto chi ci pensava?
Bisognava pur vestirli quei “>per mandarli a scuola, e degli zoccoloni di legno non volevano più saperne: ora pretendevano le scarpe, vere scarpe di cuoio.
Le aveva comprate al mercato di Luino la Veneranda, dove scendeva ogni mercoledì, con la corriera del Jean, che sobbalzava sulla strada sterrata ad ogni tornante e ad ogni fenditura del terreno, soprattutto dopo le torrenziali piogge d’autunno.
Passato il ponte del Casmera, dove si vedevano ancora i resti del cimitero precipitato a valle durante l’ultima alluvione, lo sguardo spaziava libero verso il lago: visioni incantate, specie nelle limpide mattinate di sole.
Un rapido giro tra le bancarelle, un diletto per gli occhi ed un’ulteriore mortificazione per la gola. Come avrebbe voluto cedere alla seduzione di quei profumi caserecci, così stuzzicanti e vanamente appetitosi! Comprare l’essenziale: questo l’imperativo categorico imposto dalle ristrettezze di una povertà dignitosa.
Poi il ritorno alla vita quotidiana, al duro lavoro nei prati, su per le motte scoscese a falciare l’erba con la messoria e con la ranza, per riempire le cascine di fieno, destinato alle capre nella stagione fredda.
La schiena nei boschi si incurvava sotto il peso dei ceppi, delle ramaglie e delle fascine per un inverno troppo lungo ed impietoso.
E dover tirar avanti la casa con decorosa testardaggine, senza far trasparire la propria indigenza, non diversa peraltro dalla condizione di tante altre.
Nello squallore di queste vite fatalmente votate al sacrificio, un barlume di speranza si accendeva al di là del confine.
Una specie di Eldorado sollecitava ad infrangere le rigide regole del perbenismo di facciata da cui era intrisa una società fasulla, deputata a difendere i privilegi di casta.
Che avrebbe pensato quel diafano cardinale che, sulle orme del suo illustre predecessore s. Carlo, andava peregrinando di valle in valle, di questo suo ministro di Dio, anticonformista?
Lo avrebbe bacchettato a dovere o lo avrebbe assolto anche lui?
Con questi interrogativi si andava lambiccando il cervello il maresciallo Ducatoni.
L’idea di far dare una solenne lavata di capo a quel turlupinatore di anime semplici lo aiutava a smaltire la rabbia che aveva in corpo.
«Celestino, si può sapere che ti succede questa mattina?
Hai gli occhi gonfi, la faccia stralunata e continui a dormicchiare come una marmotta in letargo!».
Aveva proprio perso la pazienza la signora Giacomina, ormai da diversi anni maestra a tempo pieno in paese, una chioccia in una classe di 35 bambini, dalla prima alla quinta, un’indiscussa autorità.
Ma il Celestino, il maggiore dei quattro figli della Veneranda, continuava a , imperturbabile come una mummia.
«E no, mio caro, non avrai per caso il male della nonna!».
La Giacomina mimava scanzonata il lento dondolio del capo delle vecchine, accoccolate accanto al focolare.
Un giorno però il Celestino, all’ennesimo rabbuffo, vuotò il sacco: «Come faccio a stare attento se non ho dormito tutta notte?»
La Giacomina, che aveva un fiuto sopraffino come un cane da caccia, capì l’antifona e lasciò correre.
Per far quadrare il modesto bilancio familiare, il Celestino, nelle chiare notti di luna, varcava il confine e si trascinava appresso una pesante bricolla di sigarette.
E non era il solo.
In prima linea erano reclutati tutti i ragazzi che avevano gambe buone e sangue in corpo.
E gli ordini erano perentori: all’alto là della finanza, mollare il malloppo e darsela a gambe.
Qualche sparo intimidatorio nella notte e poi la ricerca del bottino da parte delle guardie: un’evenienza remota, perché lo scaltro manipolo conosceva bene i sentieri e si muoveva con l’agilità di una volpe selvatica.
Se la merce giungeva a destinazione, un bel biglietto rosa salmone era garantito.
«Veneranda, Veneranda, scendi subito!».
La voce del postino la raggiunse mentre tornava dalla stalla con una gerla di letame sulle spalle.
Il Pio Bigio col fiatone arrancava lungo il vicolo sassoso che si biforcava proprio in prossimità della casa della Veneranda, agitando un telegramma di cui conosceva già il contenuto.
La Veneranda ebbe appena il tempo di deporre la gerla, poi le ginocchia le si piegarono tramortite da un incontrollabile tremolio. «Madonna santa, che sarà successo?».
Dopo una notte da incubo, la mattina seguente, la Veneranda, alla stazione di Maccagno, prese il treno delle sei.
Si sentiva sola, abbandonata, in preda ai più tristi presentimenti.
Il telegramma diceva e non diceva, faceva intuire, ma non confermava: «Parti subito, Peppino grave».
Lo aveva scritto uno del paese, il Giannino che era emigrato con lui in cerca di fortuna.
Quale fortuna?
Ora la Veneranda si rendeva conto che a voler strafare è come tentare di raddrizzare le gambe ai cani.
Quando si nasce poveri si è destinati a soffrire e basta.
Ai cavalli magri van dietro tutte le mosche lo sapeva bene, ma né lei né il suo Peppino avevano voluto arrendersi.
Ed ora si trovava lì, su quel treno diretto verso l’ignoto.
>No, non avrebbe pianto, non se lo poteva permettere.
Avrebbe accettato il suo destino, qualunque fosse stato.