Pedrinin

 

Pedrinìn era il primo di una nidiata di dodici marmocchi, cresciuti all’ombra della grande casa sulla collina, la Casnéda, un’antica costruzione gentilizia, coi suoi ambulacri, scanditi da eleganti colonne doriche, testimonianza del fasto di un passato ormai morto e sepolto.
Da quando il numero delle bocche era andato via via crescendo, si era sempre sentito dire: «Pedrinìn, usa tu il buon senso che sei il più grande!».
Ma di buon senso non sembravano averne un gran che quei due infaticabili «riproduttori» che ogni anno scodellavano una nuova bocca da sfamare.
Una miseria nera, tanto che un solo uovo doveva bastare per il pasto di tutta la famiglia.
 Eppure il pollaio, pur insidiato da frequenti scorribande di volpi e faine, era ben popolato, ma le uova erano sacre, come le particole della comunione: vendute o barattate servivano per comprare il pane o un sacco di farina da polenta.
Durante l’autunno e l’incipiente stagione invernale, una fumante pentola di caldarroste per cena rendeva i sonni meno popolati dai consueti incubi di una fame mai doma.
 La carne no: era un lusso che non ci si poteva permettere se non quando una gallina, ormai allo stremo, rischiava di defungere di morte naturale.
 Gallina vecchia fa buon brodo, ma il brodo non saziava quei ragazzi che avrebbero divorato anche le gambe del tavolo.
Nondimeno quell’omino minuto di papà Felice era un animale da soma infaticabile: tagliava legna nei boschi, coltivava con cura il proprio campicello e i lavori più faticosi e mal pagati erano suoi.
 Lo sapeva bene la gente che spesso ne approfittava.
Pedrinìn, fin dalla più tenera età, aveva condiviso, giocoforza, la sorte del padre, ma la situazione andava di giorno in giorno peggiorando.
 Era da poco tornato il Filippo della Pezza, un giovanottone tutto muscoli che esibiva anche una parlantina da avvocatino di città: «Che ci stai a fare qui in paese, attaccato alle sottane di tua madre e smarrito come un uccello in gabbia?
Vieni via con noi e non te ne pentirai!».
 Ad alimentare i voli della fantasia contribuivano puntualmente quei racconti che nelle serate d’inverno si ripetevano nelle case degli emigranti.
Narrazioni sempre più dense di fascino, soprattutto per un giovane come lui che si affacciava speranzoso alla soglia dell’adolescenza, storie che aprivano squarci di mondo impensabili per chi non era mai uscito dai ristretti confini del proprio paese.
 Pedrinìn aveva la netta sensazione di trovarsi improvvisamente di fronte ad un lembo di cielo, lacerato da un soffio di vento gagliardo.
Gli uomini, in genere, rientravano in paese a fine novembre, in occasione della sagra di S. Caterina e trascorrevano le feste natalizie insieme alla famiglia: rari rimpatri, contrassegnati da frequenti gravidanze.
Era forse questo il modo per tutelare una fedeltà coniugale assai difficile da conservare, data la lunga assenza del consorte dal talamo nuziale.
Le infedeltà, peraltro, non erano frequenti, non tanto per le intemerate virtù muliebri, ma per l’endemica mancanza del maschio.
Per la maggior parte dell’anno, infatti, regnava incontrastata la supremazia del matriarcato.
Le rare avventure con qualche forestiero intraprendente si trasformavano quasi sempre in disavventure di cui le vittime designate erano solo le donne.
Il frutto del peccato doveva essere occultato ad ogni costo.
 La morale comune e il perbenismo imperante non ammettevano deroghe, anche se, spesso, i tutori dell’etica convenzionale erano i primi a violarla, quando si sentivano salvaguardati da un’inespugnabile privacy.
 Si vociferava, infatti, e non a sproposito, che una pietosa complice, ma non altrettanto riservata da seppellire per sempre il suo intrigante segreto, avesse sostituito temporaneamente, in uno sperduto paesino di montagna, un’amica suora di non intemerati costumi.
 Costei, infatti, aveva ceduto alle seduzioni della carne, ma, bontà sua, aveva comunque voluto partorire la sua creatura per affidarla ad un brefotrofio che avrebbe fatto perdere per sempre le tracce di una maternità proibita dai sacri canoni.
Pedrinìn non aveva mai fatto mistero agli amici più fidati della sua intenzione di andare in cerca di fortuna in Francia.
Aveva pertanto risparmiato, lira dopo lira, la somma necessaria per il viaggio.
Si era assicurato l’appoggio del Filippo che diceva di aver bisogno di un garzone che lo coadiuvasse nell’ambita professione di imbianchino.
Un imbianchino che, non a torto si vantava di essere anche un buon decoratore, avendo avuto la fortuna di lavorare all’interno di un convento dove aveva contribuito a restaurare la chiesa dei frati.
Pedrinìn, dunque, tenne celato fino alla vigilia della partenza il suo proposito, nel timore di ferire la sensibilità della madre o di non essere in grado di opporre resistenza alle insistenti sollecitazioni del parentado.
Raccolte le sue cose in un capiente fardello, di buon mattino s’avviò lungo la
rizàda, la scalinata che conduce verso il lago, dove una barca lo attendeva per trasportarlo fino a Luino.
Se ne accorse la povera madre ed in preda ad un dolore tanto lacerante quanto inatteso, si affacciò alla finestra e con quanto fiato aveva in corpo gli gridò: «Torna indré Pedrinìn, ch’ad dac un oeuf ma ti»
(Torna indietro Pierino che darò un uovo solo a te!).
Pedrinìn rimase impassibile ad ascoltare quelle parole che stavano per scalfire con la forza cruenta di uno stilo incandescente il proposito maturando da tempo.
 Trangugiando le lacrime che gli scendevano copiose dagli occhi, rispose stoicamente: «No, vaca puciànega, a vag in Francia!» (
No, intercalare, me ne vado in Francia) e scomparve dietro l’ultima curva, celando il desiderio cocente di poter ritornare al suo paese con un gruzzoletto in tasca, come tanti altri prima di lui.

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