COLMEGNA: LA FESTA DI SANTA CATERINA NELLA TRADIZIONE LOCALE
Una fassina per ul falò de santa Caterina! Chi m’en dà vüna, chi m’en dà dö, chi m’en dà mia che ‘l diavul u se’l porta via! (Una fascina per il falò di santa Caterina! Chi me ne dà una, chi me ne dà due, chi non me ne dà che il diavolo se lo porti via!). Per la festa di santa Caterina, i giovani di Colmegna un tempo peregrinavano di casa in casa per raccogliere legna, destinata al grande falò della vigilia, sollecitando la generosità della gente con questa perentoria esortazione che si concludeva con un’inquietante maledizione.
Una sagra antica le cui origini si perdono nella notte dei tempi, ma che esercita ancora il suo fascino per la ritualità alla quale si ispira.
Un’altra tradizione, andata persa, è quella della distribuzione del pane che ci fa risalire lungo i percorsi del tempo quando, probabilmente, in seguito ad uno scampato pericolo o ad una calamità impressa in modo indelebile nella memoria collettiva, tutta la comunità colmegnese si vincolò perennemente ad un voto, forse per esorcizzare oscuri pericoli sempre incombenti.
Se ne trova traccia nelle Ordinationes del 1578 a seguito della visita pastorale a Colmegna di Monsignor Taruggi, delegato di S. Carlo: «La comunità perseveri nell’osservanza del voto da distribuire ogni anno nel giorno di santa Caterina una elemosina alla quale si contribuisce cinque lire ed una quarta di pane per fuoco, et quelli che hanno mancato si costringhino alla sattisfatione ed alla perseveranza».
Verosimilmente il pane veniva distribuito ai poveri che partecipavano alla grande festa patronale, come segno di ospitalità e di condivisione. Solidarietà tra derelitti? Forse.
Anche noi, figli del benessere e del consumismo imperante, abbiamo molto da imparare.
I Colmegnesi hanno sempre considerato la festa di S. Caterina quasi più importante dello stesso Natale, anche perché coincideva con il ritorno degli emigranti stagionali al proprio paese natio.
Tre giorni prima, il suono festoso delle campane si diffondeva per tutta la valle.
La sera della vigilia, sulla riva del lago, veniva acceso il grande falò.
Il suo bagliore, accompagnato dalle secche detonazioni dei botti dei mortaretti, avvertito da lontano, richiamava il giorno successivo, pellegrini anche dalla dirimpettaia valle Cannobina.
Sui davanzali delle finestre dei «Ca’ neuf» e sulle balaustrate di «Casa Casneda» lunghe sequenze di gusci di lumache, riempiti d’olio con relativo stoppino, creavano suggestive luminarie.
Per santa Caterina, si indossava la vestimenta nuova, acquistata con i risparmi accumulati, giorno dopo giorno, per tutto l’anno.
Al mattino della festa, le vie del paese dalla riva del lago fino alla chiesa si trasformavano in un vero e proprio mercatino dove si poteva trovare ogni ben di Dio.
Era il giorno di cuccagna anche per i bambini che spendevano le loro magre mancette in leccornie e dolciumi, abitualmente banditi per l’estrema povertà della vita quotidiana.
C’era poi la «Micc», una vecchina minuscola proveniente dalla Val Cannobina che dal suo gerlo traeva, come da un magico cilindro, caramelle, liquirizie, confetti, trombette e cifulit per la gioia dei più piccoli e il cruccio dei padri costretti, loro malgrado, a venir meno al consueto rigore spartano.
Dopo le funzioni religiose, che culminavano con una devota processione e l’incanto dei canestri, all’imbrunire uno stuzzicante profumo di caldarroste si diffondeva per l’aria.
Con l’ultima castagnata d’autunno, condita da abbondanti libagioni e da allegre cantate nelle fumose osterie del paese, si concludeva una festa tanto attesa e trascorsa troppo in fretta per poterne gustare a pieno la dolcezza.