Una strana avventura

UNA STRANA AVVENTURA

Strade assolate di paese, pomeriggi infuocati di luglio: ai margini, rotolati nella polvere, uomini avvinazzati, in preda ad un torpore paralizzante: povere larve prostrate dalla fatica e dall’unica droga concessa ai poveri.
Osti disonesti, avvoltoi senza scrupoli, mescevano loro vini scadenti. Nell’oblio di una fumosa taverna, Lete obbligato per sfuggire al delirio di una esistenza grama e senza spiragli, la domenica, si consumava il frutto di un duro lavoro.
Fuggivo lesto, assalito da una paura senza nome, greve e funesta.
 Il frinire delle cicale intesseva un mesto peana sempre uguale, simile all’eco di una litania ossessiva. Evocazione di melodie disperse dietro il sipario di un tempo ormai lontano.
E sul far della sera incontravo la Giustina, claudicante fantasma, barcollante nell’oscurità.
Avanzava sotto il peso della gerla.
La gerla e la Giustina erano una cosa sola, come la lumaca e il suo guscio.
Se ne separava solo la domenica per recarsi in chiesa, rivestita del suo abito nero a trine grigiastre.
Vi giungeva con un largo anticipo per assicurarsi il posto in seconda fila sui banchi, sul lato sinistro della cappella di santa Caterina.
Non avrebbe potuto, infatti, pagare le 5 lire per la sedia in fondo alla navata.
Non che ci credesse molto, ma quell’uscita settimanale era l’unico spiraglio di vita sociale che avesse.
Se ne stava lì, inebetita, rannicchiata su se stessa, col libro nero da messa aperto sulle ginocchia, sempre alla stessa pagina.
Solo in rare occasioni bofonchiava qualche parola incomprensibile ai più, ma chiaramente interpretabile da chi la conosceva bene, quando il curato tuonava contro i partiti atei che volevano distruggere la santa madre Chiesa.
Non ne faceva mistero: lei votava comunista da sempre, soprattutto da quando quel fascistone di un Ottavio le aveva giocato un brutto tiro.
Omosessuale incallito, ma non dichiarato, l’Ottavio, dal fronte balcanico, doveva dimostrare la sua asserita «normalità».
E che cosa di meglio per la censura di quelle lettere traboccanti d’amore per una presunta fidanzata al paese natio?
Nessuna ragazza però gli avrebbe dato credito; i suoi precedenti erano noti a tutti, tranne che all’ingenua Giustina.
Nella sua dabbenaggine, zoppa scalcagnata, si era sempre illusa che prima o poi qualcuno l’avrebbe corteggiata, a prescindere dal suo aspetto fisico.
 Si sbagliava.
Rideva l’Ottavio, rideva a crepapelle all’osteria tra gli amici, mostrando una dentatura sghemba che gli conferiva un aspetto satanico: «Ma cosa s’aspettava da me quella storpia maledetta?
 Dai segnati da Dio me ne guardo io!» Una bravata crudele e spietata, degna di un pusillanime come lui.
L’esasperazione della Giustina, per quella sua vita senza futuro, si tingeva di un’iracondia incontenibile, quando i soliti sfrontati che giocavano per le strade la canzonavano scimmiottando la sua claudicante andatura.
 Allora sembrava una furia scatenata e, non potendo reagire coi fatti, sciorinava una litania di bestemmie tra le più irriverenti.
«Andrai dritta all’inferno!» le urlavano le donne più timorate di Dio, ma la Giustina aveva la risposta pronta: «Lo avete mai visto voi l’inferno?
 Eh, care le mie donne, avete un bel da fare a biascicare giaculatorie dalla mattina alla sera: è proprio vero che quando i corpi son frusti anche i paternostri vengono giusti.
La verità è che la vedova del povero Martin Cigòla è là ancora ad aspettare che suo marito torni a dirle qualcosa sull’aldilà.
E pensare che glielo aveva promesso cinque minuti prima di tirare le cuoia». 
Anche quella sera di un dicembre inoltrato la Giustina arrancava verso casa con due fascine di pampini secchi che le penzolavano dalle braccia.
Dopo un pomeriggio di solitaria fatica nel suo lög, avrebbe finalmente rallegrato il misero tugurio col caldo tepore del focolare e preparato la minestra di verdure, rito ineludibile, per necessità o per tradizione, sul morir del giorno.
Cominciavano a scendere i primi fiocchi di neve.
La strada era divenuta scivolosa e rendeva incerto il cammino.
Le orme si stampavano sulla neve fresca, ma venivano immediatamente ricoperte da un sottile strato di bianco.
La Giustina non s’era arrischiata a scendere dalla scorciatoia ed aveva imboccato la strada che passava davanti al cimitero.
Paura non ne aveva: quando si è morti si è morti, pace, amen; dei vivi bisogna avere paura.
Quella sera però un brivido inconsueto le percorse le ossa.
Sarà il freddo, – disse a se stessa – sarà forse un po’ di febbre: un chinino l’avrebbe rimessa in sesto.
Avvertiva però nell’aria un non so che di insolito, dei passi felpati in quel silenzio che avvolge tutte le cose quando la neve incombe e un odore pungente di tabacco da pipa.
Li conosceva bene lei gli odori: li fiutava nell’aria come un cane da preda.
Dall’alto del suo abbaino scrutava i passanti che transitavano sulla via; il buio spesso non le permetteva di individuarli, ma l’odore, il profumo, il ritmo cadenzato dei passi, quelli sì.
La sensazione era forte. Aveva sentito dire che certi privilegiati avvertivano, in qualche rara occasione, il profumo di violetta che emanava a distanza Padre Pio, ma lei non ci aveva mai creduto.
Fandonie, chiacchiere da donnicciole fuori di testa e nulla più. Ma quell’odore ora lo avvertiva con tutta la sua penetrante fragranza: era il tabacco da pipa del povero Giacomino.
No, forse anche lei, in quell’atmosfera irreale, si stava lasciando suggestionare dalla fantasia e dai ricordi, tanto più che si avvicinava al cimitero.
 Poi all’improvviso un passo a lei noto: trasalì. Un’intera esistenza trascorsa all’insegna del più prosaico realismo, un cielo senza madonne e senza santi ed ora, eccola qui, a dover fare i conti con un evento imprevedibile, che mai si sarebbe immaginata in cent’anni di vita.
«Oh Signore, mica mi sta dando di volta il cervello?
Eppure quello è il Giacomino!». Come poteva essere reale quell’apparizione che in lontananza si dileguava nel buio, dirigendosi a lunghe falcate verso la casa della Gilda?
Riavutasi da quell’improvviso spavento, facendo leva ancora una volta sulla sua consueta freddezza, la Giustina, lentamente, con fare circospetto, si inoltrò nel viottolo a sinistra che si inerpicava a zig zag verso la casa della Gilda.
Quattro finestre illuminate la guardarono in tralice con fare severo quasi volessero rimproverarla per quell’indebita intrusione.
Non poteva trattarsi di un essere in carne ed ossa: sulla neve nessuna impronta. Ma intanto, ritornando delusa sui propri passi, la Giustina dovette accorgersi che anche le sue orme erano state cancellate.
Si sentiva come quella volta che era rimasta impigliata con la gonna sopra uno strapiombo, mentre era andata a tagliare l’erica per i conigli.
Fortuna volle che il Martino e la Pinotta che stavano raccogliendo castagne un po’ più avanti ne udissero le grida laceranti.
Si guardò attorno a destra e a sinistra: nessuno.
Eppure di solito qualcuno passava sempre a quell’ora. Mai aveva avuto così paura a transitare davanti al cancello del cimitero, ma doveva farlo.
 Affrettò il passo a rischio e pericolo di prendere qualche scivolone, ma non gliene importava nulla. In lontananza dal campanile scoccarono le ore, anch’esse ovattate, quasi timorose di infrangere quell’atmosfera sognante.
 In quel momento avrebbe voluto levarsi in volo come una starna e ritrovarsi all’istante davanti al suo camino a scaldarsi mani e piedi.
Il Giacomino non aveva neppure la tomba al cimitero.
Unico ricordo una sua fotografia sulla lapide dei genitori. Il suo corpo era rimasto giù, in fondo al lago e non c’era stato verso di ritrovarlo.
 Le tornavano alla mente le vecchie storie di paese, raccontate dalla nonna nelle lunghe serate d’inverno, storie che le facevano venire la pelle d’oca e gli incubi durante la notte.
Si ricordava del fantasma del vecchio Belemo che, caduto nel pozzo, rincorreva le donne di notte per segnalare il luogo dove giaceva il suo cadavere.
 Non sarebbe riuscito ad aver pace fino a quando non l’avessero sepolto in terra consacrata.
Forse era così.
Erano trascorsi ormai due anni dalla disgrazia.
Giacomino era il postino del paese.
Di lui se ne raccontavano di cotte e di crude.
 Che fosse di mano lesta se n’erano accorti anche all’ufficio postale, quando le povere donne che ricevevano le rimesse in denaro contante dai loro mariti all’estero, si ritrovavano stranamente una somma decurtata, rispetto a quella dichiarata sulla lettera.
 All’inizio si pensò ad uno sbaglio, ma poi la frequenza con la quale gli ammanchi si ripetevano indussero ad una più stretta sorveglianza ed il Giacomino fu finalmente sorpreso con le mani nel sacco.
 Non se ne fece nulla, anche perché la vittima del furto fu blandita con ben altre seduzioni.
Giacomino era un ragazzone ben piantato, zazzera all’ultima moda, viso ingenuo da bambino, occhi sornioni, voce carezzevole e suadente: ingredienti che facevano di lui il perfetto latin lover del paese.
Tanto più che, nella maggior parte dei casi, il Giacomino rappresentava l’unica costante presenza maschile, un vero gallo nel pollaio.
Gli uomini, costretti ad emigrare, tornavano solo ad autunno inoltrato per festeggiare il Natale e per fare figli.
Per il resto dell’anno il Giacomino poteva ritenersi un libero battitore.
 Superata la soglia dei trent’anni, però, aveva deciso di mettere la testa a buon partito e di accasarsi.
Tra alti e bassi, l’amore per Gilda aveva superato la prova del fuoco. Si dava ormai per scontato che la prescelta fosse lei.
 Gilda era una ragazza piacente, un sogno irraggiungibile per molti pretendenti, una preda sicura per Giacomino.
Bionda, slanciata, seno prorompente, bocca sensuale, sguardo magnetico, sorriso invitante, Gilda sapeva essere ad un tempo seriosa e seducente.
 Aveva però un difetto: era povera in canna e a Giacomino piaceva la vita agiata. Era stanco del solito tran tran, dei luoghi comuni, del perbenismo di facciata che doveva esibire ogni giorno per esigenze professionali.
 Non ne poteva più di quella vita monotona che doveva trascinarsi dietro come il fardello della Giustina.
 L’occasione ghiotta gli si presentò quando la Fedora, la figlia del macellaio, cadde in un estenuante stato di depressione.
Il suo principe azzurro, infatti, un principe del foro come lo definiva il padre, all’improvviso dovette convolare a giuste nozze riparatrici, non con la Fedora, ma con una collega, divenuta in breve tempo un’amica troppo stretta.
Figuriamoci la Fedora: delusa, amareggiata, aveva minacciato fuoco e fiamme, ma poi s’era placata, chiusa nel suo muto dolore fino a ridursi a pelle ed ossa.
 Non che fosse una donna in carne, ma da quel momento divenne ancora più curva, come se si trascinasse sulle già esili spalle un peso insopportabile.
 Sul cavallo morente si accaniscono tutte le mosche e le comari di paese spietatamente dicevano che lei, poverina, bontà loro, le curve, anziché davanti, le aveva dietro.
Ma questo non impedì al Giacomino di fare due conticini in tasca alla Fedora, anzi al di lei padre, il Gianni macellaio.
Un conto in banca ce l’aveva ed in posta, quando arrivava lui, scattavano tutti sull’attenti. Insomma un notabile del paese.
 E fu così che, congedata in quattro e quattr’otto la Gilda, il Giacomino, dopo aver terso le lacrime alla Fedora, in men che non si dica la condusse all’altare.
 Passarono gli anni, ma il tanto sospirato erede non venne.
Colpa della Fedora, troppo sciattona o del Giacomino sempre intento a sguazzare come un pesce da un letto all’altro?
 Pochi erano disposti a credere che la storia con la Gilda fosse finita con quel matrimonio.
Le lunghe attese mattutine della sospirata posta non lasciavano dubbi: il Giacomino era in tutt’altre faccende affaccendato.
Quando passava per le strade con una rumorosa moto Guzzi rossa, la gente gli gridava: «Sei più bullo che bello!».
Ma lui se ne infischiava. Un sogno che aveva accarezzato per tanto tempo, divenuto realtà con i soldi del macellaio e con il gruzzoletto segreto che si era messo da parte giorno dopo giorno.
 Durante l’estate, infatti, terminato il suo servizio, il postino si trasformava in pescatore e non si poteva dire che non avesse fortuna.
Il lago era il suo regno ed a settembre poteva esibire un’abbronzatura da far invidia a un bantu dell’Africa sub sahariana.
Vendeva i suoi pesci ai pescatori della domenica che, al tramonto, dopo un’estenuante attesa sulle rive del lago, dovevano, loro malgrado, tornare a casa a mani vuote.
Una figuraccia che presso le mogli rimaste sole in città e i colleghi di lavoro non potevano permettersi.
E così il Giacomino provvedeva a colmare i loro vuoti canestri dietro lauto compenso.
Un bel giorno, o un brutto giorno che dir si voglia, una nuvolaglia incombente si addensò sopra il lago.
 Lampi minacciosi cominciarono a zigzagare sulla superficie dell’acqua, uno spettacolo pirotecnico fuori programma.
Il Giacomino, come tutti i pomeriggi, si trovava in mezzo al lago, almeno così si credeva.
Uno schianto e la sua barca si capovolse.
Trasportata dalla furia dei flutti, si infranse contro gli scogli.
 Il Giacomino, sbalzato fuori dall’imbarcazione, purtroppo era stato inghiottito dalle acque.
 E dire che era un provetto nuotatore.
 I fulmini però possono incenerire e questa fu la versione più accreditata dalla stampa locale, dal momento che tutte le ricerche del disperso erano state vane.
 Erano intervenuti i palombari, erano stati impiegati i mezzi più sofisticati per quell’epoca, ma senza alcun risultato.
 E pensare che pochi giorni prima della tragedia, il Giacomino aveva prelevato dal conto della moglie una somma che sarebbe servita per comprare una nuova barca, una vera occasione, per incrementare la sua fruttuosa attività di pescatore.
 Avrebbe probabilmente lasciato anche il suo impiego alle poste e si sarebbe messo in proprio in un’attività imprenditoriale, che si preannunciava ricca di prospettive.
 Nella chiesa del paese,
absente cadavere, si celebrarono i solenni funerali, con tanto di catafalco fittizio e con l’intervento della banda musicale.
Fu un giorno di lutto cittadino, in cui furono versati fiumi di lacrime, specie da parte del gentil sesso.
L’unica rimasta stranamente impassibile fu la Gilda. Giusta reazione nei confronti di quell’uomo che le aveva voltato le spalle, nel momento stesso in cui si aspettava il coronamento di un sogno d’amore a lungo accarezzato. «Dio non paga tutti i sabati, ma paga!» sentenziavano le vecchie megere.
La Giustina se n’era guardata bene dal raccontare la storia del suo incredibile incontro: ci avrebbe rimesso quella poca reputazione di cui godeva ancora.
Pochi giorni dopo, però, la Gilda era partita per un viaggio improvviso.
 Si disse che aveva trovato un posto in Finlandia, come sarta e guardarobiera di un grande hotel e che presto avrebbe fatto sapere buone nuove ai suoi rari parenti.
 Nessuno sospettò che ci fosse sotto una tresca, saggiamente architettata, ma la Giustina sapeva.
 Tenne però celato il suo segreto fino a quando, per caso, un emigrante del paese non incontrò per le vie di Helsinki una strana copia.
 Pur imbacuccati ed avvolti in pesanti pellicce, l’uomo giurò di averli riconosciuti: erano la Gilda e il Giacomino.

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