LA PICHÉTA
Oh povera Caruleu, quale sorte le fu mai riservata in quel fine giugno, così torrido, con l’aria irrespirabile e gli abiti che si appiccicavano addosso come francobolli!La Caruleu, secondogenita di tre sorelle zitelle, aveva assunto il ruolo di uomo di casa.
Mentre le altre due si dedicavano ai lavori domestici, al rammendo e perfino al ricamo, lei, più corpulenta, si era addossata il pesante incarico di contadina a tempo pieno dopo la morte del padre.
In realtà non aveva mai accettato la perdita del genitore del quale conservava un ricordo quasi sacrale.
Si era pertanto chiusa nel suo dolore e, senza avvedersene, giorno dopo giorno, andava identificandosi nella vivida immagine paterna, impressa nella sua memoria a caratteri indelebili.Aveva indossato l’abito nero del lutto e non l’aveva mai smesso, neppure per le feste di Carnevale, quando le rare amiche che aveva la sollecitavano a partecipare al gran ballo di circostanza.
Il lavoro dei campi era divenuto la sua religione, il suo divertimento, lo scopo irrinunciabile della sua vita.
Una vita che gli altri giudicavano scialba ed incolore, ma che a lei piaceva, piaceva e basta.
S’era avviata dunque, anche in quella calda mattinata di giugno, con la ranza sulle spalle e la bottiglia della pichéta sotto il braccio, verso la campagna, per tagliare l’ultimo magent.
La pichéta era un vinello aspro, ma dissetante, ottenuto aggiungendo abbondanti dosi d’acqua alle uve pigiate prima dell’ultima spremitura nel torchio. Gradazione alcolica modesta, ma guai ad abusarne.
Il pericolo in agguato era quello di un’infiammazione viscerale, noiosa e spesso persistente.
E fu quello che capitò alla povera Caruleu che, disidratata dal sole cocente, si era abbeverata un po’ troppo a quel vinello fresco ed ingannatore.
Era tornata a casa un po’ stordita e con un bruciore che la divorava, dallo stomaco, al retto e più oltre.
Le sorelle, allarmate, invocarono subito l’intervento della più prestigiosa medegòta del paese, la Giacoma, che le prescrisse «immantinente» un decotto di linosa e, nel caso di recidiva, una solenne purga a base di olio di ricino.
Si ricorse nel frattempo ad impacchi di malva ad uso topico sul posteriore, ma senza sensibili risultati.
Eppure la Giacoma la sapeva lunga e godeva di un’autorità indiscussa in paese.
Sistemava slogature, assisteva ai parti delle donne e delle vacche, delle capre e delle scrofe.
Con un rituale noto a lei sola, inoltre, segnava le sciatiche e liberava dal malocchio, ma la povera Caruleu non trasse alcun giovamento dalle pratiche della «santona».
«Ti conviene andare a farti visitare all’ospedale di Luino» le suggerirono le sorelle che la vedevano sempre più spenta in volto ed in preda ad un indicibile malessere.
La Caruleu si indignò, imprecò, diede in escandescenze: lei all’ospedale non ci voleva andare, mica era moribonda.
Ma poi scese a più miti consigli.
Nel bel mezzo del cortile, cinto da un alto muro di protezione, le sorelle collocarono il mastello, quello stesso che si usava una volta all’anno per spellare il maiale.
Lo riempirono di acqua calda e lisciva e vi immersero la povera Caruleu, nuda come un verme.
«Oh Dio che vergogna!» andava ripetendo con la voce monotona di una gallina strozzata la Caruleu ogni volta che le sorelle strofinavano la spugna su quelle forme ben più che giunoniche.
Poi le fecero indossare un paio di mutandoni ricamati, con tanto di pizzo, ancora profumati di naftalina, riesumate dalla cassapanca che conteneva la sua inutile dote.Vestita di tutto punto, ragguagliata sul da farsi, la spinsero, quasi a viva forza, fuori dall’uscio di casa per mandarla in ospedale.
«Lì – dicevano le sorelle – troverai i dottori vestiti di bianco: non lasciarti prendere dalla vergogna, cala le mutande e mostra quella maledetta infiammazione che non ti concede requie, né di giorno, né di notte!».
Se ne andò la Caruleu, barcollando, sia per le scarpe nuove che non aveva mai calzato, sia per quel «tormentone» che non le dava pace, decisa a mostrare, per la prima volta in vita sua, le «pudende» ad un uomo, fosse pure un medico. Entrata nell’atrio dell’ospedale ancora in fase di ristrutturazione, confusa ed ansiosa, scorse dinanzi a sé le sagome di alcuni uomini biancovestiti. Non esitò un istante nel timore che le venisse a mancare il coraggio, ed accennato brevemente al suo problema, in men che non si dica, calate le mutande fino alle ginocchia, espose il posteriore alla loro curiosità pietosa. «Povera donna – commentarono – chissà quanto avrà sofferto!». «Eh, sì, sono proprio disperata. Allora che cosa dovrei fare per guarire da questa maledetta infiammazione?» «Cara signora – risposero in coro – entri nell’ambulatorio che le sta di fronte: lì troverà i medici: noi siamo soltanto gli imbianchini!».