Curiglia

Quelli di Curiglia persero la fede

Ma che intenzioni avevano quelle due donne che dal suo arrivo in paese sembravano essere diventate le colonne portanti della chiesa di S. Vittore?Se lo chiedeva spesso il curato di Curiglia che s’era ben presto reso conto della loro mania di protagonismo.
 Accorrevano in chiesa ad ogni suono di campana, si occupavano della pulizia e rovistavano negli armadi della sacristia, in cerca di chissà che.
 Se le trovava regolarmente sulla soglia di casa durante l’ora del desinare per i motivi più futili e faticava non poco per evitare le loro incursioni in cucina e in sala da pranzo.
 Quando si recava a visitare un infermo, per non si sa qual malaugurata coincidenza, intercettavano i suoi passi e lo seguivano in lontananza con le pedule ai piedi per dissimulare la loro presenza.

Martina e Cesira

Chi erano dunque la Martina e la Cesira? Due anime purganti, due angeli custodi in incognito o due demoni travestiti da contadine?
La loro opprimente presenza stava per diventare una vera e propria ossessione e il pover’uomo si domandava sconsolato se le critiche ed i pettegolezzi di cui era bersaglio non fossero opera loro.
D’altra parte c’era da aspettarselo in un paese come Curiglia: le chiacchiere erano l’unico passatempo che si potevano permettere le donne, vittime di una vita dura, intessuta di sacrifici e di rinunce.
In fondo il pettegolezzo poteva anche essere una forma degenerata di interessamento per gli altri.
Talvolta però il buon curato sentiva il sangue ribollirgli in corpo, soprattutto quando le due
factotum sporgevano la loro lingua per ricevere la Comunione.
In quel momento avrebbe voluto impugnare le forbici e accorciargliela come un tralcio di vite.
Una lingua grigiastra, al centro di una rastrelliera di denti in pessimo stato, sembrava il corpo molliccio di una vecchia lumaca in attesa di esibire i suoi tentacoli cornuti.
In diverse occasioni, spiegando il Vangelo domenicale, aveva richiamato dal pulpito le virtù preclare di Marta e di Maria, ma la Martina e la Cesira erano ben lontane dall’imitarne l’esempio.
Anche quando qualche parrocchiano lo invitava a condividere il suo pasto frugale, le due intriganti lo venivano a sapere. «Ha mangiato bene, signor curato, ieri sera, a casa del Giacomino?» gli domandavano con piglio indagatore e con tono inquisitorio parandoglisi dinanzi prima dell’inizio della messa mattutina.
Stanco di queste angherie, per mettere alla prova, una volta per tutte, la loro dubbia discrezione, il buon uomo si accordò col curato di Runo per quella che doveva diventare la prova del fuoco decisiva.
Una sera, di martedì, convocò le due donne in canonica.
 Mosse da una curiosità incontenibile, la Martina e la Cesira giunsero tutte trafelate e con uno sguardo più attonito e meravigliato del solito esclamarono: «Che cosa è successo, signor curato?».

La prova

Il prete, con un atteggiamento insolitamente grave rispose: «Ho da affidarvi un importante missione. Domani, mentre scenderete al mercato di Luino, dovrete far tappa a Runo e consegnare al curato uno scrigno molto prezioso: domattina vi rivelerò il contenuto. Vi raccomando, però, assoluta segretezza!»
La Martina e la Cesira non si erano mai sentite così importanti in vita loro. Il mattino seguente si presentarono di buonora in canonica per ricevere la preannunciata incombenza.
«In questo scrigno – disse il curato scandendo le parole – è contenuta la FEDE.
Voi sapete di certo, come ho avuto modo di insegnarvi, che si tratta di un grande mistero.
Sarete attese dal curato di S. Giorgio, ma, badate bene: non vi passi neppure per l’anticamera del cervello l’idea di cedere alla tentazione di aprire lo scrigno».
Le donne giurarono e spergiurarono. Riposero il prezioso fardello nella gerla e si avviarono lungo i tortuosi sentieri che scendevano a valle.
 La curiosità ebbe però il sopravvento.
 «Apriamo lo scrigno per un solo istante – si dissero – e richiudiamolo immediatamente: il curato di Runo non se ne accorgerà.
E poi anche noi poverette capiremo, una volta per tutte, che cos’è questa benedetta fede di cui i preti ci riempiono le
scuffie».
Detto, fatto.
Giunte ad una
possa, un sasso sul quale erano soliti sostare tutti quelli che portavano la gerla, con aria circospetta guardarono a destra e a sinistra: nessuno.
Col cuore in gola per l’emozione, le mani tremanti e maldestre, aprirono lo scrigno: ne uscì una vispa lucertolina che, in men che non si dica, si dileguò tra il fogliame.
La Martina e la Cesira dovettero presentarsi al curato di Runo col capo chino e con le stigmate del loro indicibile disappunto dipinto sul volto.

Da allora si disse, non senza una nota di malignità, che quelli di Curiglia avevano perso la FEDE. 

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